I nativi digitali: un approccio antropologico [conclusioni e prospettive]

“Nell’era digitale in cui viviamo stiamo assistendo ad un cambiamento antropologico che coinvolge non solo i nostri figli born digital, ma anche noi genitori, che ai loro occhi appaiamo come veri e propri antenati digitali.”[1]

Parlare di nativi digitali significa inevitabilmente avvicinarsi e affrontare la tematica del sistema scolastico e più in generale del sistema educativo. Analizzando la tematica dal punto di vista formativo si arriva inevitabilmente a dover considerare come questo cambiamento venga vissuto e assorbito sia dai nativi digitali che dagli immigranti.

Ritengo importante evidenziare il fatto che “questa generazione mostra comportamenti di apprendimento differenti dalle generazioni precedenti; in particolare, apprendere attraverso schermi, icone, suoni, giochi, navigazioni virtuali e in costante contatto telematico con il gruppo dei pari significa sviluppare comportamenti di apprendimento non lineari, come quelli alfabetici e gutenberghiani.” [2]

Questa tesi si è sviluppata illustrando il dibattito nazionale e internazionale sul termine nativi digitali, sulle teorie rispetto al tema e l’osservazione da un punto di vista antropologico; quindi in una visione interdisciplinare tra pedagogia e antropologia ho  voluto concludere  questo lavoro avviando una riflessione esplorativa, che potrà essere approfondita in seguito, ritenendo interessante riflettere e prendere spunti attraverso alcune interviste su soggetti migranti digitali per dare, in questo modo,  avvio a una prima osservazione sul campo.

Trovandoci dunque dinnanzi a una generazione che apprende attraverso strumenti diversi dai nostri e in modo diverso dal nostro, ho ritenuto interessante svolgere alcune uguali  domande, in sostanza un’intervista strutturata, a genitori di bambini della stessa età di mia figlia, a migranti digitali, quindi, che quotidianamente si rapportano ai nativi digitali. I soggetti di riferimento sono dunque genitori di bambini frequentanti la prima elementare (durante l’anno scolastico 2013/2014), di alcune scuole di Milano.

Le conversazioni sono state sostenute prendendo come soggetti da intervistare  tre genitori per scuola; le scuole di riferimento all’interno delle quali ho scelto di svolgere le interviste sono una privata del centro di Milano, il collegio San Carlo di Corso Magenta, e due scuole pubbliche, la scuola  Locatelli di via Pisacane e la scuola Giusti di via Giusti. Tre scuole, dunque, molto diverse  relativamente  alla popolazione, ai probabili orientamenti che hanno spinto i genitori a iscrivere i figli, alle esperienze  didattiche innovative che introducono.

Le interviste da me effettuate risultano essere un primo tentativo di esplorazione del tessuto sociale milanese, in merito alla tematica da me trattata fin qui in maniera prevalentemente teorica, ma che ritengo meriterebbe un approccio pratico e investigativo sul campo che potrebbe concretizzarsi in prossime ricerche etnografiche più ampie e approfondite.

Le domande strutturate, riportate in appendice [Appendice 1], toccano alcuni temi fondamentali come quello dell’impiego personale dei devices da parte dei bambini, del setting scolastico e della possibilità dell’uso della tecnologia a scuola come supporto formativo, ma soprattutto sono volte a capire la percezione del fenomeno da parte dei migranti, ovvero i genitori.

La tipologia e la quantità di domande da me svolte, oltre al numero dei soggetti,  può essere considerata un piccolo quadro e una prima esplorazione, delle suggestioni, sulla percezione che i migranti possiedono in merito al sistema scolastico e alle nuove tecnologie che i propri figli esperiscono quotidianamente, consapevole del fatto che una futura ricerca qualitativa su soggetti simili potrà essere un fertile campo di indagine. Le interviste effettuate possono costituire  semplicemente lo spunto per eventuali ricerche future.

Nel corso dei colloqui sembra emergere chiaramente un senso di spaesamento percepito da molti immigranti nei confronti del nuovo mondo digitale e da come questo venga esperito dai propri figli.

Riporto in maniera sintetica le riflessioni più salienti, suddivise domanda per domanda, che sono emerse nel corso delle interviste.

– La prima domanda è quella di apertura, con la quale ci si avvicina al soggetto con un meccanismo di facile approccio e con cui mettere a proprio agio il soggetto stesso, introducendolo nella tematica. È la domanda in cui le risposte sembrano essere più omogenee a livello di contenuti e riflessioni: tutti i bambini hanno avuto curiosità verso devices elettronici con un approccio attivo già a partire dai 3/4 anni.[3]

– La seconda domanda entra subito nel focus della questione e tenta di far emergere i reali atteggiamenti e giudizi dei migranti. Infatti è la domanda nella quale i soggetti hanno risposto in modo più articolato e discorsivo e dove spesso emergono sentimenti contraddittori, come paura e spaesamento, curiosità e consapevolezza dell’ineluttabilità della formazione dei propri figli con questi strumenti. Emerge spesso anche il tema della preparazione degli insegnanti nei confronti dell’hardware e del software, del loro modo di affrontare l’insegnamento e quindi della necessità di una preparazione specifica. In queste risposte di tipo discorsivo, ho avuto la percezione che a un maggior livello culturale corrispondesse una maggiore apertura e conoscenza della potenzialità degli strumenti, e quindi un minor timore riguardo ai loro presunti effetti negativi.

Nelle risposte a questa domanda si è anche parlato della questione del genere e come i devices possano portare ad un appiattimento delle differenze fra sessi.

– La terza domanda è quella in cui ci si interroga su una prossima scuola senza libro. È una domanda molto attuale perché rientra nel dibattito vivo e contemporaneo riguardante l’introduzione a pieno titolo degli e-book a scuola. Anche in queste risposte ho percepito alcune differenze di atteggiamento in base al livello culturale della famiglia: più il livello era elevato più risultavano consapevoli e favorevoli all’imminente sostituzione del libro con l’e-book.

– La quarta domanda riguarda l’uso dei dispositivi elettronici da parte dei nativi digitali in famiglia. In tutte le risposte i genitori appaiono restii a dire quanto tempo effettivo vengano utilizzati gli strumenti elettronici da parte dei propri figli, nel senso che emerge una sorta di pregiudizio sul fatto che un impiego intensivo di questi strumenti possa essere comunque considerato negativo, se non addirittura patologico. Ciò lo si evince in particolar modo nel momento in cui i genitori ammettono di dover porre un freno ai propri figli che altrimenti userebbero gli strumenti digitali per ore. Accanto alla paura per la dipendenza a cui la tecnologia può portare, coesiste il fatto che -in un caso emerge esplicitamente- i genitori ammettono anche di lasciare lo strumento in mano ai propri figli “per tenerli buoni”.  Tutti i soggetti intervistati possiedono oltre che lo smartphone, almeno un Ipad per famiglia. La differenza tra i vari sogetti intervistati è se appartenga addirittura al bambino.

– La quinta domanda tocca il tema del setting scolastico che andrebbe esplorato approfonditamente e dove emerge la differenza tra scuola privata e pubblica. Il collegio San Carlo dalla prima elementare ha lezioni di informatica, ha una LIM o whiteboard, usata anche nelle lezioni di inglese, per classe; i genitori di bambini frequentati questa scuola sembrano avere una maggiore sicurezza nella conoscenza di come e cosa fanno i loro figli a scuola; nella scuola pubblica la situazione è poco confortante, manca un’idea di cosa e di come lavoreranno i loro figli. Sicuramente nel plesso di via Pisacane si ritrova una maggiore volontà da parte dei genitori di fare qualcosa raccogliendo fondi per supportare la manchevolezza della struttura. Evidente dunque la discrasia su come la situazione venga presentata dai media, in riferimento alla tecnologizzazione delle scuole e dell’apprendimento, e su come effettivamente risulta essere all’interno delle scuole.

– La sesta domanda intende indagare le modalità di comunicazione che si vanno a costituire grazie e attorno agli strumenti digitali, dalla quale emerge una percezione positiva circa le potenzialità comunicative che i devices offrono ai nativi digitali ma anche al dialogo tra migranti e nativi. Chi ha meno paura vede una possibilità di aumento della condivisione e quindi di un aumento delle possibilità di comunicazione. La sensazione dei genitori intervistati è che tra i bambini ci sia una condivisione e un alto livello di comunicabilità anche nei giochi elettronici, anche se permane la paura di una perdita di fantasia;  emerge inoltre la paura per la possibilità che vadano su siti pericolosi, quindi la necessità di prestare sempre attenzione e osservazione.

– L’ultima domanda riguarda la percezione della tipologia di apprendimento dei propri figli grazie alla tecnologia. All’interno delle risposte si ammette che l’apprendimento, anche se diverso rispetto al passato, risulta essere veloce; anche se accanto a ciò convive la paura per la perdita della riflessione, dell’attenzione e delle capacità di  letto-scrittura, che risultano però essere concetti che noi immigranti digitali possiamo aiutare a trasmettere. Anzi, questo ritengo sia il nostro vero compito.

Come lo stesso Ferri sostiene all’interno di Nativi digitali uno dei rischi maggiormente avvertito è che “la frattura culturale e cognitiva tra genitori e figli si apra a tal punto da rendere difficile la comunicazione e paradossalmente impossibile la condivisione intergenerazionale di esperienze, valori e addirittura la trasmissione del sapere.”[4] Accanto alle paure e al senso di impotenza provato dagli immigranti di fronte all’ineluttabilità delle tecnologie, è possibile però anche leggere, dalle parole e dagli atteggiamenti dei genitori dei nativi digitali, una forma di positività riguardo alle potenzialità che gli strumenti digitali possano offrire ai loro figli, pur senza realmente comprenderle o metterle a fuoco. Il comune denominatore sembra essere una consapevolezza di dover fare da ponte verso i nativi digitali per poter conservare una serie di caratteristiche positive proprie dei figli del libro.

Il ruolo del migrante digitale, come è emerso dalle interviste e come sostiene Ferri in conclusione del suo volume, è quello di tentare di fare da ponte per i nativi digitali, insegnando loro “la pazienza e la fatica delle cose del mondo, […] e soprattutto dobbiamo insegnare loro a reggere la frustrazione dell’errore e dell’attesa.”[5]

In appendice, oltre alle domande effettuate ai genitori  ho scelto di inserire un’intervista svolta al filosofo  Salvatore Natoli [Appendice 2]. L’idea nasce proprio da alcuni spunti toccati da Natoli durante il suo corso “dalla sacralità alla democrazia rappresentativa”  che ho seguito  mentre stavo lavorando alla tesi. I nativi digitali saranno nel prossimo futuro la nuova classe dirigente, i cittadini del mondo tecnologico in cui forse a malapena ci si ricorderà del libro; perciò quando nel corso di Natoli sono stati toccati i temi della scuola, della nascita della pedagogia e della formazione della nuova classe dirigente, della rete come nuovo strumento in politica o del voto digitale ho avuto la curiosità e l’idea di approfondire con domande specifiche questi temi.  Si tratta infatti di spunti in grado di aprire delle linee di tendenza che vanno oltre il tema della formazione, e che riguardano il mondo digitale nell’imminente futuro, cioè quando non si parlerà più di migranti ma solamente di nativi digitali.

L’appendice in cui riporto l’intervista svolta a Natoli resta senza commento, ma ci tengo a sottolineare come anche per lui il cambiamento strutturale e cerebrale che l’essere umano sta vivendo risulti essere un processo oramai irreversibile.

 

L’acceso dibattito che ho riportato nel corso della tesi risulta essere estremamente contemporaneo e in continua evoluzione, questo viene dimostrato dal fatto che già dal momento in cui ho iniziato a lavorare su questo tema ad oggi ci siano state profonde innovazioni tecnologiche: gli strumenti digitali che utilizziamo continuano a modificarsi, la tecnologia addirittura da estensione del corpo umano potrà divenire strumento impiantato nel corpo stesso. Infatti come leggiamo di seguito, “l’intimità tecnologica sarà uno dei temi centrali della discussione pubblica dei prossimi anni ma benché il suo centro pulsante riguardi i computer indossabili (e ahinoi più avanti forse anche quelli impiantabili) la sua storia è già silenziosamente iniziata qualche anno fa. Il telefono cellulare, che da quando è connesso a Internet estraiamo dalla tasca centinaia di volte al giorno, con i suoi paradigmi di portabilità e aderenza al nostro corpo (alle nostre mani certamente ma anche alle nostre tasche) è silenziosamente già diventato una parte di noi. È un’estensione non umana ma che il nostro corpo e la nostra mente riconoscono come adeguata.”[6]

Data la multidisciplinarietà del campo ho attraversato la tematica osservandola da diversi approcci e da diverse discipline, toccando elementi di pedagogia, di neuroscienza e di dibattito sociologico.

Interessante in conclusione mostrare come anche la ricerca psicologica e in particolare la psicoanalisi, in prima istanza particolarmente diffidente nei confronti delle esperienze digitali, cominci ad offrire il proprio contributo alla questione, anche la psicanalisi, infatti, negli ultimi anni sembra essersi sempre di più avvicinata al tema del virtuale e si mette in gioco proprio perché il mondo digitale va a operare sulla percezione del sé. Questo perché vi sembrano essere alcuni punti in comune tra l’oggetto di studio della psicoanalisi, ovvero la mente, e la virtualità. Infatti “l’aspetto della virtualità può suggerirci qualcosa sulla mente (come oggetto di lavoro analitico) in quanto condivide con essa lo statuto di luogo/non luogo che, pur avendo una base fisica, materiale (il cervello e il sistema nervoso, o la struttura dell’hardware) risulta appunto smaterializzato. È un luogo-metafora che tuttavia continua a dover essere colto con le coordinate di spazio e tempo. In sintesi la VR consente a un oggetto, grazie alla tecnologia, di entrare in immersione in un ambiente che può essere tridimensionale, che non è statico ma che si evolve dinamicamente e permette di interagire con esso e di esplorarlo.”[7]

Questo significa che spazio mentale e spazio virtuale presentano delle similitudini e delle allusioni reciproche; sono entrambi mondi metaforici che rimandano a relazioni di profonde connessioni e di scambi. “Lo spazio virtuale riesce quindi a essere uno spazio mentale (e viceversa, è possibile congetturare), a correlarsi con esso in zone esperienziali comuni.”[8]

Date le profonde connessioni che la realtà virtuale e la realtà mentale presentano, la psicoanalisi ha cominciato ad interessarsi alle modalità con cui la prima possa influenzare la seconda e agire con e su di essa.

Riconoscere queste connessioni, da parte della psicoanalisi, risulta essere un passo decisivo per gli sviluppi futuri della disciplina, in quanto questa, per molti aspetti, sembra essere ancora fortemente legata a strutture e modelli superati, che la accompagnano dalla sua nascita.

Come è già emerso nel corso dell’elaborato, anche da questa prospettiva risultano esserci due differenti possibili scenari: che l’essere umano perda il senso di distinzione tra sé e la macchina ed entri così in una sorta di vaniloquio narcisistico (ciò che in psicoanalisi viene appunto classificata come abuso o addirittura dipendenza da Internet), e chi invece riesce a scambiare col mondo cyber comunicazioni emotivo-affettive.

In questo senso il mondo digitale-virtuale può essere considerato come una nuova dimensione dell’umana esperienza.

Da sempre l’antropologia indaga il rapporto tra l’uomo e gli strumenti da lui creati, è sempre esistita una letteratura su questo rapporto, ma oggi, data la natura profondamente diversa degli strumenti con cui l’uomo quotidianamente si approccia anche il linguaggio della digital ethnography si sta aggiornando in questa direzione.

Proprio per questo ritengo che il tema della generazione dei nativi digitali e della realtà virtuale sia così centrale e rilevante al giorno d’oggi, considerandolo infatti come una nuova dimensione dell’esperienza umana risulta necessariamente essere un oggetto che merita di essere osservato e analizzato in modo interdisciplinare e in modo costante, data anche l’estrema velocità con cui i cambiamenti hanno luogo.

Non si può affermare la nascita di una nuova generazione e quindi una differenza antropologica quasi a definire una nuova forma evolutiva ma sicuramente tutti concordano su una modificazione degli aspetti neurali e degli aspetti emotivi a partire da una modificazione dell’ambiente in cui viviamo, aspetto visibile ora più che mai data appunto l’estrema velocità dei cambiamenti in atto

[1] F. Sbrissa, Crescere con i media digitaliche fatica! La parola alle famiglie, pag. 87, in Rivoltella Pier Cesare e Sinini Gloria, Apprendimenti digitali? Una sperimentazione nella scuola primaria, Educatt, Milano, 2012

[2] W. Veen, B. Vrakking, Homo Zappiens, pag. 106

[3] Gli studiosi di psicologia evolutiva collocano nel periodo tra i 5/7 anni il passaggio dal pensiero intuitivo al pensiero operatorio manuale di psicologia dello sviluppo (Luigia Camaioni, Manuale di psicologia dello sviluppo, Il Mulino); dai soggetti intervistati si rivela un anticipo sulla fascia d’età.

[4] P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, Milano, 2011, pag. 155

[5] P. Ferri, ivi, pag. 191

[6]  M. Mantellini, www.ilpost.it

[7] A. Marzi (a cura di), Psicoanalisi identità e Internet, Franco Angeli, Milano, 2013, pag. 20

[8] A. Marzi (a cura di), ivi, pag. 21

Una risposta a “I nativi digitali: un approccio antropologico [conclusioni e prospettive]”

  1. Sottoscrivo in pieno le considerazioni di Papik, volgio solo aggiungere a mf2 di esempio la testimoniaza di un mio amico, docente di filosofianei licei che qualche anno con i suo allievi fece, nell’ambito di un gemellaggio tra scuole, un viaggio a Seattle, sede della Microsoft e quindi patria dei nativi digitali.In quella scuola superiore di Seattle assistette ad alcune lezioni, in cui non era previsto affatto l’uso del computer (!) ed in cui l’insegnante guidava la discussione in una tavola rotonda con i suoi studenti .Il docente aveva comunque sempre il ruolo del maestro che comunica il suo sapere disciplinare ed accerta successivamente le capacite0 degli allievi.Lunga vita alla lezione cattedratica!!

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