I nativi digitali: un approccio antropologico [tesi]

A Matilde,

 creatura di luce, nativa digitale, il mio timone, il mio amore,

 che vive ancora nel mondo della fantasia e che potrà contare sempre su di me

 

Desidero ringraziare gli antropologi e l’antropologia, come scienza di confine, per avermi supportato e sopportato in questi anni difficili e di profonda trasformazione.

Desidero ringraziare i miei amici Benedetta Golizia, Caterina Sciariada, Edoardo Totaro, Gianluigi Gurgigno, Valeria Molino, Viviana Toro, con i quali ho condiviso esami e momenti di vita.

Ringrazio i Professori che mi hanno, forse anche senza saperlo, sostenuto in questa ricerca e sfida mentale.

Un particolare ringraziamento và alla Professoressa Susanna Mantovani, che molte volte mi ha ascoltato sul piano personale e che mi ha sostenuto e incoraggiato durante questo lavoro e al Professor Ferri per la sua cordialità, disponibilità e per i suoi consigli e suggerimenti.

Ringrazio il Professor Natoli per gli spunti sempre lucidi che fornisce.

Un ringraziamento d’amore alla mia compagna Lucrezia Cingari per essermi stata vicino, nonostante tutto.

 

 

Indice

Indice……………………………………………………………………………………………………………. 3

Introduzione………………………………………………………………………………………………….. 4

  1. Nativi Digitali: teorie e dibattito…………………………………………………………………… 8

Confini temporali………………………………………………………………………………………… 8

Nativi digitali, immigranti digitali……………………………………………………………….. 15

Nativi Digitali: Teoria e dibattito………………………………………………………………… 20

  1. La mente, il cervello e il dibattito sullintelligenza digitale……………………………… 26

Mente e cervello: neuroscienze……………………………………………………………………. 26

L’intelligenza digitale………………………………………………………………………………… 33

Il simbionte tecnologico…………………………………………………………………………….. 41

  1. Approccio Antropologico…………………………………………………………………………… 45

I nativi digitali alla luce dell’antropologia e della digital ethnography………………. 45

Cultura ed evoluzione della mente………………………………………………………………. 47

L’ipotesi ecologica…………………………………………………………………………………….. 50

I nativi digitali nella digital ethnography……………………………………………………… 61

Conclusioni e prospettive………………………………………………………………………………. 72

APPENDICE 1: Domande ai genitori…………………………………………………………….. 81

APPENDICE 2: Intervista a Salvatore Natoli………………………………………………….. 82

Bibliografia………………………………………………………………………………………………….. 89

Introduzione

La società sta cambiando con una velocità esponenziale: i sistemi di comunicazione sono in continuo aggiornamento. Dal 1993, anno che convenzionalmente segna l’inizio della rivoluzione digitale, alla trasformazione del web in 2.0, al 2007, anno di sviluppo di Facebook, con l’introduzione dei social network, degli smartphone, delle applicazioni, dei touchscreen, ad oggi, si sta completamente modificando il sistema della comunicazione, sia dei media che interpersonale, di conseguenza cambia anche il sistema formativo, cambia il mondo in cui si vive e si vivrà. Coloro che adesso sono i primi nativi digitali e che oggi sono gli studenti della scuola, saranno i futuri cittadini, lavoratori, dirigenti, consumatori e genitori.[1]

Questa tesi propone di stimolare una discussione sui mutamenti in atto, chiedendoci se i nostri alunni/figli  più giovani siano davvero le avanguardie di una mutazione antropologica destinata ad avere un enorme impatto sul modo di vivere non solo la scuola, ma anche i comuni rapporti familiari e sociali. La prepotente e rapida entrata delle tecnologie digitali oramai in ogni aspetto della vita quotidiana che giornalmente ci sconvolge per novità alle quali noi immigranti digitali fatichiamo a stare dietro, è una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo di comportarsi e di apprendere .

La tesi nasce quindi dalla volontà di illustrare il dibattito che si è creato intorno alla definizione di nativi digitali, ovvero se questa rappresenti una reale differenza antropologica rispetto alla generazione definita come quella dei Gutenberg natives e rispetto agli immigranti digitali, in altre parole andremo a vedere se la nascita dei nativi digitali segni un vero e proprio spartiacque a livello generazionale.

Svariate sono le domande che mi hanno spinto a volere esporre come la tematica venga trattata all’interno del dibattito quotidiano e scientifico, e proprio perché rappresenta una tematica saliente da diversi punti di vista ritengo sia importante affrontarla in modo interdisciplinare.

I quesiti fondamentali che ruotano intorno all’argomento dei nativi digitali sono:

E’ una razza in via di apparizione? Vi sono modifiche strutturali che possono comportare nuove forme evolutive, modificando la struttura celebrale  di quello che noi conosciamo come homo sapiens?

C’è una diversità antropologica tra nativi e immigranti? Si tratta di una frattura netta o di un lento passaggio e trasformazione?

Essendo il tema del mondo digitale un oggetto di discorso ormai quotidiano e popolare, andremo a considerare i diversi approcci con cui le varie discipline si sono avvicinate alla questione, come la pedagogia, la sociologia, la psicanalisi e le neuroscienze, senza però appoggiare nessuna tesi piuttosto che un’altra.

All’interno del primo capitolo andrò quindi a illustrare il dibattito in corso sulla questione senza entrare nel merito delle riflessioni etico-morali che continuano a sorgere intorno al dibattito sul rapporto uomo/tecnologia e in particolare sulla visione negativa che gli apocalittici possiedono  riguardo la relazione tecnologia/infanzia e sulle proposte educative che la pedagogia ha elaborato per fare fronte a un sistema educativo che ogni giorno si ritrova ad essere obsoleto rispetto alla generazione dei nativi digitali.

Nel secondo capitolo mi soffermerò invece sulla nozione di intelligenza digitale e su come questa sia stata affrontata dalle neuroscienze. Il concetto di plasticità neurale ci permette di comprendere come il mondo digitale possa rappresentare per coloro che lo vivono, e a maggior ragione per le nuove generazioni che ci sono nate dentro, un ambiente arricchito, grazie al quale le neuroscienze individuano la possibilità di una mente estesa. Proseguo il secondo capitolo riportando il concetto di simbionte tecnologico proposto da Longo, che ben illustra il rapporto di reciproca influenza tra uomo e tecnologia.

I primi due capitoli risultano quindi essere di tipo cognitivo.

All’interno del terzo capitolo, attraverso una prospettiva antropologica, tenterò di mostrare le modalità con cui il dibattito e le polemiche sul rapporto uomo/tecnologia possano essere sciolte e superate.

Lo sguardo antropologico in questa sede risulta quindi essere uno strumento per tenere insieme, facendole dialogare, le varie opinioni che le diverse discipline nel corso dell’ultimo ventennio sono state elaborate.

L’antropologia, in questo senso, risulta essere sia lo strumento attraverso cui osservare il dibattito, sia parte del dibattito stesso, grazie agli sviluppi della digital ethnography.

All’interno delle conclusioni e prospettive ho voluto anche dare avvio ad una riflessione e offrire una rappresentazione della percezione che gli immigranti digitali hanno a proposito del nuovo ambiente formativo all’interno del quale i loro stessi figli stanno crescendo e quindi dell’uso che questi ne fanno. Da una serie di colloqui avuti con genitori di bambini e bambine frequentanti la prima elementare durante l’anno accademico 2013/2014 emergono dei punti interessanti da esplorare. I temi toccati durante i colloqui mi sono serviti per poter meglio trattare la tematica del rapporto tra immigranti e nativi digitali e l’importanza di un dialogo tra questi che vada a costituire un ponte di trasmissione e reciproco scambio.

Nelle conclusioni andrò a sottolineare, data la rapidità dei cambiamenti che ogni giorno possiamo osservare, come queste tematiche risultino essere continuamente aperte a nuove ipotesi e studi e come l’interdisciplinarietà risulti essere uno strumento efficace per poter meglio osservare e comprendere il fenomeno sotto i suoi vari aspetti.

L’idea di inserire un’appendice finale è sorta dal grande interesse suscitato seguendo il corso di Le strutture del potere: dalla sacralità alla democrazia rappresentativa tenuto da Natoli, in cui ha toccato temi come la nascita della pedagogia e possibili scenari futuri sulla politica digitale. Alla luce di ciò, chiedendo al professore un’intervista, ho quindi voluto approfondire le sue riflessioni, che attraverso una prospettiva storica delinea tendenze e ipotesi di sviluppi futuri. Non ho volutamente aggiunto commenti all’appendice.

Aldilà dei dibattiti serrati e dei sostenitori di tesi opposte, ciò che mi preme maggiormente sottolineare è l’estrema rapidità con cui il panorama digitale continua ad evolversi intorno a noi, con noi e dentro di noi. Prendere atto di questo processo da parte degli immigranti digitali risulta fondamentale per lo sviluppo di una maggior consapevolezza.

 

1. Nativi Digitali: teorie e dibattito

 

Confini temporali

“Base time: termine inglese utilizzato negli studi del contatto culturale per riferirsi a una situazione culturale e a una temporalità da cui partire per stabilire la portata dell’impatto acculturativo. L’utilizzo che viene fatto del termine non presuppone l’esistenza di un’essenza culturale statica, autentica e pura, precedente al contatto.”[2]

  1. Malighetti

Era il 13 marzo del 1989 e avveniva al CERN[3] di Ginevra: Tim Berners Lee e Robert Caillau davano vita ad una grande innovazione creando il World wide Web: un ambiente di comunicazione universale con un sistema in grado di collegare documenti e informazioni. Un’innovazione realizzata tramite ipertesti: strutture informative costituite da un insieme di testi e pagine, visualizzabili per mezzo di un’interfaccia elettronica attraverso dei link. Il Web venticinque anni fa era solo poco più che un progetto, ideato a scopi scientifici militari, e che è finito per diventare una rivoluzione senza precedenti, che ha cambiato definitivamente il mondo.

Nel 1993 nasce il primo browser user-friendly per la navigazione in Web, il cui sviluppo conduce a Netscape Navigator che si diffonderà rapidamente e di conseguenza la “rete”. Il Web adesso è radicato nella nostra realtà, nella vita di tutti giorni. E noi lo viviamo appieno sfruttandone ogni potenziale. La maggior parte degli aspetti della nostra vita, dalla formazione alla comunicazione al  lavoro, si basa oggi sul Web.

All’interno di questo processo, che ha iniziato a svilupparsi all’incirca 25 anni fa, hanno iniziato a fare la loro comparsa, alla fine degli anni 90, i portali, i motori di ricerca e i siti e-commerce.

Ma è all’inizio del nuovo millennio che la rete assume una forma ancora più avanzata, inaspettata, coinvolgente: nasce il Web 2.0, che trasformerà Internet da semplice contenitore di informazione a provider di piattaforme e di servizi il cui valore aggiunto è dato dagli stessi utilizzatori  di tali servizi.

Sono passati solo vent’anni eppure le cose sono già definitivamente mutate.

Il Web ha già modificato qualcosa, o meglio qualcuno. Mentre noi, più o meno adulti, vivevamo nel mondo che stava accogliendo Internet e stava vedendo nascere le nuove tecnologie digitali, mentre facevamo fatica ad abituarci al monitor del Pc, ai tasti dei primi telefoni cellulari, mentre vivevamo solo di analogico, abbiamo assistito alla nascita di una generazione di persone che avrebbe visto la luce in un mondo già digitalizzato. Persone che non avevano partecipato direttamente, e in futuro nemmeno indirettamente, ovvero senza i ricordi dei più grandi, a questo passaggio; persone che non avevano idea di che cosa potesse essere il mondo senza lnternet, senza videogiochi, senza le community, senza il cellulare.

E, inevitabilmente, persone che avrebbero utilizzato queste nuovissime tecnologie in modo diverso da noi, che al contrario dovevamo compiere degli sforzi. Ecco il punto: stava nascendo una generazione totalmente differente dalle altre, che avrebbe lasciato una grossa distanza da quella precedente. Perfino in termini di pensiero. Da cui forse anche noi potremmo trarre degli insegnamenti: la generazione “nativi digitali”[4]. Una generazione a cui, però, molto probabilmente avremo da insegnare qualcosa che invece ancora non conosce.

Questa é la nuova generazione. Sono i bambini, gli adolescenti di oggi, quella fascia di persone che rappresentano gli imprenditori del prossimo futuro e che vivono la multimedialità con velocità e facilità. Hanno degli stili di vita particolari, pensano e fanno più cose contemporaneamente, conoscono nuove forme di aggregazione e parlano una nuova lingua.

Molti fanno partire il termine nativi digitali riferendosi ai soggetti nati dopo il 1985, ma in quegli anni la tecnologia si è sviluppata solo nei paesi cosiddetti sviluppati e come abbiamo visto non diffusamente. Per queste ragioni non risulta semplice porre un confine netto tra la fine della generazione dei Gutenberg Natives, i figli del libro, e la nascita di quella dei Digital Natives; e più ci allontaniamo dagli anni ’80, anni in cui si sviluppano i personal computer, più è difficile schematizzare il processo di “sostituzione generazionale”.

Ferri e Mantovani sostengono che sia meglio, soprattutto per il caso italiano, considerare la categoria di nativi digitali a partire dal 1996, anno in cui i sistemi tecnologici sono ampiamente diffusi; Ferri si spinge anche a ritardarla al 1999/2000, periodo della diffusione di massa di Internet.[5]

L’espressione “Nativi Digitali” per indicare la prima generazione completamente immersa nelle tecnologie digitali, è stata utilizzata dai ricercatori in particolare per riferirsi alle generazioni nate dopo il 1996. Prenderò questa data come base time per analizzare il fenomeno dei nativi digitali a partire da un momento specifico in cui si può parlare davvero di una diffusione di massa delle tecnologie, soprattutto in Italia.

Per accostarci al filo del discorso partirò, come riferimento, dalla definizione sintetica e fortunata coniata da Marc Prensky nel 2001 nell’articolo Digital Natives, Digital Immigrants[6] nel quale sosteneva che, dalla nascita di questa generazione in poi vi è stata, vi è, vi sarà una manifesta discontinuità radicale di apprendimento e di capacità di accedere all’informazione, all’apprendimento

Una “singolarità”, un evento determinato dalla rapida diffusione, dall’esponenziale crescita e diffusione delle tecnologie digitali dagli anni ’90 ad oggi.

I digital natives sono nati in un mondo di schermi digitali; ciò che per noi è «nuovo» risulta essere il loro normale modo di accedere ai contenuti, di comunicare e di interagire, fin dalla prima infanzia. Questa simbiosi digitale cambia ovviamente anche il loro modo di vedere e rappresentare il mondo.[7] Lo cambia come la “galassia Gutenberg” lo ha fatto per noi e per tutte le generazioni passate che l’hanno abitata.

Dove porre, dunque, il confine temporale tra i “figli dei libri”, i Gutenberg natives, e i “Digital natives”?

Nell articolo del 2001 precedentemente citato di Presnky oltre a formulare la sintetica e fortunata definizione di Digital Natives, parla anche di un’altra categoria, quella degli immigranti digitali.

“Quelli tra noi che non sono nati nel mondo digitale ma che ne sono rimasti affascinati ad un certo punto della loro vita e hanno adottato molti aspetti delle nuove tecnologie, sono considerabili come Immigranti Digitali”.[8]

Molti stabiliscono, come precedentemente accennato, il confine tra le due generazioni nel 1985, cioè alla prima diffusione su larga scala di Personal Computer e di sistemi operativi a interfaccia grafica (Windows 85) all’interno di paesi occidentali.

Va anche sottolineato come il panorama delle etichette generazionali non si esaurisce con Prensky. Già nel 1998 Donald Tapscott aveva proposto il termine net-generation o Net Gen; Levino e Arafeh nel 2002 parlano di studenti “internet savvy”[9]; Wim Veen e Ben Vrakking nel 2004 lanciano il termine “homo-zappiens” per sottolineare una delle caratteristiche delle nuove generazioni, sulle quali torneremo in seguito.

Pedrò è l’ideatore del suggestivo termine “New Millennium Learner”, nel quale è chiaramente evidenziata la questione relativa all’apprendimento, termine che è stato utilizzato anche per un importante convegno, tenutosi a Firenze nel 2007, a cura di Indire e OECD[10], al quale parteciparono molti dei protagonisti più importanti del dibattito sull’argomento. 16 relatori da tutto il mondo, oltre 250 partecipanti, 3 sessioni di lavoro, un’intera giornata dedicata all’approfondimento di tematiche cruciali per la scuola del nuovo millennio. Sono questi alcuni numeri del convegno internazionale “New Millennium Learners – Scuole, tecnologie, apprendimento” che si è tenuto a Firenze lo scorso 7 marzo.

L’evento, organizzato dall’OECD e dall’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica, si è posto l’obiettivo di presentare lo stato dell’arte sulla ricerca relativa alle tecnologie digitali nell’apprendimento, individuando nel contempo strategie di sviluppo per possibili, nuove sperimentazioni.  Questo fenomeno, che si sta dispiegando con una rapidità impressionante ed esponenziale (più di due milioni gli IPad Apple venduti nei primi tre mesi dalla presentazione) e che ha avuto dal 2007 un altra accelerazione con l’introduzione dei touch devices, non può essere considerato semplicemente una moda o un fenomeno passeggero: non siamo noi «immigranti digitali» il principale soggetto attivo di questa trasformazione, noi che consideriamo i «nuovi giocattoli digitali» come una incredibile innovazione da accettare o rifiutare.

La sfida del nuovo millennio è dunque duplice: da un lato è opportuno indagare i cambiamenti avvenuti nelle capacità cognitive dei giovani a seguito del potenziamento delle nuove tecnologie, dall’altro è necessario riuscire a trarre il maggior beneficio possibile dalle competenze tecnologiche che i ragazzi oggi già possiedono.
Quindi fra tutti i termini coniati e le successive evoluzioni degli stessi ritengo che l’accezione data da Ferri Mantovani di nativi digitali sia la più adeguata per studiare il fenomeno per come si è sviluppato in Italia, e che la data di riferimento sia quella del 1996.

“Da un punto di vista antropologico i bambini nati dopo il 1996 abitano, esperiscono e vivono sin dalla nascita, almeno nelle società avanzate, in uno “stato del mondo” molto differente da quello che abbiamo esperito alla nascita noi immigranti digitali.”[11]

Pur considerando il 1996 l’anno di riferimento, abbiamo già avvertito un altro salto nel 2005 con l’affermarsi del web 2.0, che ha permesso agli utenti di creare e condividere contenuti online sulla base dell’idea che siano gli utilizzatori ad aggiungere valore ai servizi che il Web propone, grazie ad una architettura partecipativa che ha permesso lo sviluppo rapido di Facebook -dal 2007-, dei social network, blogging, Youtube.

Seguendo questo tipo di ragionamento H. Gardner e K. Davis giungono a parlare di “generazione App”: all’interno del loro volume[12] sostengono, infatti, che le generazioni possano essere capite e spiegate in base alla tecnologia e alle innovazioni dominanti durante il corso della loro vita. L’elemento importante da sottolineare è che la tecnologia di riferimento cambia in modo sempre più veloce, dal fax, al web, al web 2.0, ai touch devices fino alle app; per questo gli autori giungono a sottolineare che “le tecnologie digitali hanno aggiunto un nuovo significato al concetto di generazione, che ha ripercussioni sia sulla sua durata, sia sui modi in cui la sua coscienza può venirne influenzata.”[13]  Propongono dunque il termine di generazione breve, definita dal rapido susseguirsi delle tecnologie e media digitali: generazione sms, generazione web 2.0, generazione Facebook.

Il recente sviluppo e incremento delle app ha permesso a H.Gardner e K.Davies, all’interno del loro attualissimo volume, di affermare che “i giovani di quest’epoca non solo sono immersi nelle app, ma sono giunti a vedere il mondo come un insieme e le loro stesse vite come una serie ordinata di app.”[14]

Le app presentano infatti determinate caratteristiche che le differenziano in modo notevole dal web nella sua prima accezione: portano, infatti, l’utente in modo veloce ai contenuti richiesti, in modo diretto e senza bisogno di ricerche ulteriori.

Il cambio generazionale di cui gli autori parlano consiste a loro avviso in specifici mutamenti e possibilità; si tratta di un cambiamento generazionale che si esplica in tre fondamentali sfere della vita umana: l’identità personale, le relazioni di intimità e l’immaginazione.[15] Per ciascuna di queste tre sfere gli autori si pronunciano riguardo possibilità di cambiamenti in negativo quali lo svilupparsi di identità più superficiali e narcisistiche e di intimità costruite in ambiento on e off line controllati, dove l’incertezza, necessaria alla crescita emozionale dell’individuo, è ridotta al minimo, l’immaginazione già tracciata da un insieme di tools. Ma gli autori sostengono che ogni rivoluzione tecnologica e culturale porti a dei mutamenti dei percorsi di crescita non necessariamente negativi, ma solo diversi.

Ma, come precedentemente affermato, la velocità delle trasformazioni è tale che già mentre scrivo questa tesi, si sta andando verso altre frontiere del digitale, che coinvolgono oramai generazioni che stanno entrando nel modo del lavoro, con una velocità che, come tutti oramai comprendono, risulta essere esponenziale.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nativi digitali, immigranti digitali

 

Ma cosa sono i nativi digitali,[16] come si definiscono?

La definizione nativi digitali ha il vantaggio di essere sintetica e possiamo dire che sia stata ripresa nel dibattito culturale come punto di riferimento, ma è stata contestata essendo considerata da molti studiosi, come vedremo più avanti, una definizione puramente giornalistica.

Anche la stessa espressione dicotomica nativi digitali/immigranti digitali pur avendone sottolineato l’uso critico che se ne deve fare, ha una sua chiarezza espressiva forte e un’efficacia che la rende “una buona ragione per utilizzarla.”[17]

Ci sono alcune caratteristiche, a mio parere incontestabili, che sono evidenti.

  • I nativi digitali sono immersi in un ambiente tecnologico. I devices, gli schermi, il touch digitale sono considerati elementi naturali del loro ambiente di vita. Tale naturalezza emerge dal fatto che questi, oltre ad essere a loro agio nell’interagire con queste tecnologie, le vedono e le usano come parte integrante e naturali del loro agire.
  • Si relazionano con queste tecnologie attraverso il gioco e l’intuitività senza l’ausilio di manuali di istruzioni.
  • L’atteggiamento è propositivo, interattivo e costruttivo.
  • Vi è un alto grado di personalizzazione degli strumenti e dei giochi.
  • Vi è una condivisione sia orizzontale sia verticale dei contenuti e degli strumenti.
  • Se ne deduce che il mondo della rete, il mondo digitale sono per loro un luogo di socialità, di relazioni aperte, in cui è possibile accedere all’informazione e condividerla.

I nativi mostrano un approccio più pragmatico e personalizzato del nostro alla comunicazione e alla conoscenza. Un approccio che modella un intero ambiente culturale con differenti campi di esperienza sociale, sia comunicativa sia formativa:

“i nativi sperimentano direttamente e naturalmente la pedagogia dell’errore e del trial and error, più che un approccio storico o sistematico e sequenziale alla conoscenza come il nostro.”[18]

A differenziare il modo di sapere e comunicare dei nativi digitali in modo determinante sono “la condivisione con i pari, la cooperazione, l’utilizzo di differenti approcci al problema dato, e di molteplici codici e piani di interpretazione per risolverlo.”[19] Si tratta di un approccio «open source» e cooperativo con gli oggetti culturali che è ben rappresentato dal modo in cui i giovani condividono la musica, il sapere e le esperienze online attraverso i più diversi strumenti di comunicazione tecnologica (MSN Messenger, Wikipedia, Skype, l’IPod e il podcasting, i blog).

Non siamo in presenza di un fenomeno marginale, ma di una tendenza che sta diventando, se non lo è già, mainstream. In media, oltre il 90% dei giovani europei usa Internet e gli schermi digitali interattivi; centinaia di milioni di adolescenti e preadolescenti, almeno nei paesi sviluppati, videogiocano, hanno un sito, un blog, una loro identità online sui social network come Facebook o MySpace.

I loro stili di comunicazione, i loro modi di pensare, sono differenti dai nostri. Una rassegna ragionata della letteratura scientifica in materia ci indica i valori che orientano gli stili comunicativi dei «nativi».[20] Come si è visto le principali caratteristiche descritte si possono riassumere in una maggiore espressione di sé e personalizzazione, nella condivisione costante di informazione (sharing) e nel costante riferimento al proprio gruppo di pari. Più ampiamente, le loro modalità di approccio alla conoscenza sono caratterizzate dall’utilizzo di un codice digitale, dalla condivisione e dalla creazione della conoscenza (MP3 e Wikipedia), dall’apprendere attraverso il gioco e l’esplorazione, dall’esternalizzazione dell’apprendimento, dalla comunicazione in opposizione alla riflessione, dalla mancanza dell’autorità del testo. La conoscenza passa attraverso il connettersi, il navigare e l’esplorare.

Ma la caratteristica più distintiva per indicare i nativi digitali è il multitasking, sia come forma di apprendimento, sia come forma di comunicazione tra pari: si parla al telefono, si ascolta la musica, si naviga sul web, si chatta con amici.

I digital natives sono nati in un mondo di schermi digitali, quello che per noi è nuovo e “scintillante” è il loro modo normale di accedere ai contenuti, di comunicare e di interagire fin dalla prima infanzia.

Con queste caratteristiche è ovvio che l’approccio alle informazioni, alla cultura e conseguentemente anche quello imprenditoriale cambierà.

“È con questa “specie in via di apparizione” che dovrà confrontarsi il ricercatore, a partire da oggi e per tutti gli anni a venire… e non si tratta di «nuovi barbari», sono semplicemente dei diversi.”[21]

Con l’espressione Gutenberg Natives definiamo tutti coloro che sono nati e cresciuti all’interno dell’universo culturale della carta stampata, della produzione industriale di massa, caratterizzata da una maggiore passività rispetto al mondo dell’informazione caratterizzata con pochi decisori.

In relazione alla modalità di approccio alla conoscenza i tratti che caratterizzano i Digital Immigrants sono l’utilizzo di un codice alfabetico, una forma di apprendimento lineare, la predilezione per uno stile comunicativo uno a molti, un apprendimento per istruzioni, una maggiore internalizzazione e riflessione, una riconosciuta autorità al testo. In questo caso, la conoscenza passa prioritariamente attraverso la lettura.

Certo che la categoria degli immigranti digitali si caratterizza per lo sforzo e l’adattabilità che hanno dovuto avere per adeguarsi al nuovo ambiente sociale  e culturale.

L’avvicinamento è avvenuto principalmente attraverso il lavoro, con manuali di istruzioni, con fatica e talvolta con dispiacere, e sicuramente come fonte secondaria (prima il libro e poi internet).

E’ evidente come tutto questo sia completamente differente dall’approccio dei nativi digitali che sono nati in un mondo culturale-tecnologico “che presenta una serie di discontinuità radicali con il mondo descritto da Mc Luhan nella galassia Gutenberg.”[22]

Secondo Jenkins[23] infatti coloro che fanno parte della generazione gutenberghiana rappresentano un modello di audience e di pubblico passivo, non creatori attivi di contenuto, mentre invece i nativi digitali appartengono e rappresentano il nuovo paradigma di media digitali partecipativi; fin dalla nascita infatti i nativi digitali partecipano e creano all’interno del flusso mediale digitale.

Questo fenomeno è ciò che Jenkins definisce come partecipatory culture.[24]

La cultura partecipativa, secondo l’autore, presenta particolare forme di comunicazione di linguaggio con i media digitali che i più piccoli, quindi i nativi digitali, sviluppano più facilmente; le caratteristiche che Jenkins individua sono “gioco, simulazione, performance, appropriazione, multitasking, conoscenza distribuita, intelligenza collettiva, giudizio critico, navigazione transmedia, networking, negoziazione.”[25] Anche il tipo di apprendimento, proprio dei nativi digitali, che ne emerge risulta essere differente, “più orientato all’interazione sociale e alla condivisione dei contenuti”[26] e quindi spesso troppo distante dallo stile di insegnamento dei propri docenti.

Ci sono comunque delle responsabilità importanti per gli immigranti digitali come quella di lasciare in eredità la capacità di un utilizzo “critico” delle tecnologie.

 

 

 

 


Nativi Digitali: Teoria e dibattito

 

Utilizzare l’espressione mutazione antropologica può sembrare forte ma sono queste le parole con le quali molti autori hanno presentato la questione del rapporto tra generazioni e tecnologie digitali negli ultimi anni.

E’ necessario, quindi, in questa sede fare una panoramica sul dibattito in corso, senza però soffermarmi sulle sue connotazioni morali, elemento su cui invece è solito soffermarsi un certo tipo di giornalismo.

Prensky e Ferri sostengono in più punti che si possa parlare della nascita di una nuova specie, diversa in modo sostanziale da quella precedente. Una vera rivoluzione antropologica paragonabile a quella della stampa a caratteri mobili o alla nascita della scrittura.

Wim Veen, studioso olandese di nuovi media, usa il termine Homo Zappiens.

“Identifica una generazione che ha avuto nel mouse, nel pc e nello schermo una finestra di accesso al mondo.”[27]

Pier Cesare Rivoltella è di opinione contraria. Non è possibile parlare di una differenza antropologica netta, e, sostiene, contro le tesi precedenti, che non esiste alcuna variazione antropologica, tantomeno epigenetica nel cervello e facendo riferimento a Geake (2009) che parla di neuromitologie ( si fa riferimento a come la sovrainterpretazione del ruolo delle neuroscienze nella comprensione di alcuni fenomeni connessi con l’apprendimento abbia condotto negli ultimi anni a fornire agli insegnanti indicazioni che in ultima analisi si dimostrano prive di fondamento scientifico)  che sono sorte su questa questione.

Per Rivoltella un’altra neuromitologia è questa delle giovani generazioni che sarebbero “diverse”, anche dal punto di vista neurologico, dalle precedenti in virtù del fatto che sono cresciute a contatto con i nuovo media digitali.

Sul funzionamento mitologico  dei discorsi che accompagnano la diffusione sociale delle tecnologie è lo stesso del funzionamento che instaura un dispositivo retorico e culturale molto presente anche oggi nei discorsi diffusi a livello sociale , non solo in relazione al ruolo delle tecnologie.

La specificità comunicativa è stata colta molto bene da Roland Barthes (1957) quando ha definito il mito come “ un sistema semiologico secondo che rovescia  e fissa la cultura in natura.”[28]

Rivoltella riconosce tre fondamentali caratteristiche della screen generation: la capacità multitasking, l’interattività e la peculiarità di riconoscersi in una subcultura: la finger generation (generazione del dito), così definita perchè caratterizzata dalla digitazione delle informazioni sulle tastiere.

L’idea della diversità antropologica è quindi una classica situazione di moral panic cioè di una situazione che si verifica quando all’interno di una società, un gruppo di questa venga ritenuto portatore di determinate caratteristiche (come è accaduto al termine nativi digitali) che il sistema dei media ne inizia a fare oggetto di discussione, di attenzione garantendo ad esso enfasi.

Invece, De Kerckhove si spinge a parlare di nuovo brainframe, letteralmente quadro mentale, o meglio stile di pensiero. Questo concetto vede il superamento della presa cognitiva sul mondo che aveva la precedente generazione e vanta una generazione molto sveglia e impegnata, legata ad Internet ma non in modo morboso, che utilizza la rete per diversi scopi, i social per consolidare le proprie amicizie tenendo conto dei pericoli che offre il Web: diventando più critici rispetto l’informazione e le opportunità che Internet offre; affinando, attraverso i giochi di ruolo, la capacità decisionale.

Prensky ha più recentemente modificato la sua impostazione originale, preferendo rinunciare a entrambe le definizioni qui prese in esame cioè immigranti e nativi basate sull’età in favore, a distanza di un po’ di anni da quell’articolo, motivandola su per giù con le stesse motivazioni, accoglie quest’idea e riconosce in un nuovo articolo che quelle due categorie hanno fatto il loro tempo.

In questo articolo del 2009 Prensky sostiene che “la distinzione tra nativi e immigranti digitali sta diventando meno significativa”[29] e vara nuove categorie indipendenti dall’età anagrafica

Per approfondire la categoria di nativi digitali Prensky propone tre profili più specifici:

  1. a) quello del saggio digitale (digital wisdom). Si tratta di un utente, giovane o anziano che sia, capace di un uso critico e responsabile delle tecnologie digitali;
  2. b) quello dello smanettone digitale (digital skilness). E’ colui che possiede le competenze tecniche già attribuite al nativo: rapido, esperto, dotato di grande dimestichezza rispetto ai diversi supporti;
  3. c) quello dello stupido digitale (digital stupidity). E’ colui che delle tecnologie fa usi impropri, dannosi, trasgressivi; o anche colui che rifiuta apriori di avvicinarsi ad esse ritenendole fonte di tutti i mali.

Molti ricercatori e studiosi hanno posto, infatti, diverse obiezioni al discorso sui nativi digitali. Si sono in qualche modo creati due schieramenti contrapposti, i cui protagonisti stanno tuttora dialogando in modo anche aspro.
Le principali critiche riguardano la mancanza di evidenze scientifiche suffragate da ricerche e indagini su larga scala che dimostrino l’effettiva esistenza della frattura generazionale. Uno dei principali sostenitori di questa tesi è Mark Bullen, professore del British Columbia Institute of Technology (Canada), il quale si autodefinisce come “Net Gen scettico”. Bullen ha creato un sito web[30] dedicato alla sua ricerca sperimentale sul tema dei nativi digitali. Le conclusioni della ricerca sono le seguenti:

“while our study found that the use of some ICTs was ubiquitous (e.g., mobile phones, email, and instant messaging) we did not find any evidence to support claims that digital literacy, connectedness, a need for immediacy, and a preference for experiential learning were characteristics of a particular generation of learners”.[31]

Alcune criticità più sottili erano già state però evidenziate, in un articolo[32] pubblicato nel 2008 sul British Journal of Educational Technology, da Bennett, Maton e Kervin nel quale si sostengono, in sintesi, tre principali tesi:

1) Nonostante si dia per scontato che i ragazzi vivano immersi nelle tecnologie, il reale utilizzo di queste ultime è ancora piuttosto superficiale e si limita per lo più a giochi, messaging, navigazione web.

2) Le differenze di competenze tecnologiche esistenti all’interno della generazione dei più giovani sembrano essere più o meno le stesse esistenti tra i giovani e le persone adulte (con l’eccezione della fascia di popolazione più anziana). In sostanza non sembrerebbe possibile identificare una tipologia di utenza su base puramente anagrafica, il che legittimerebbe il discrimine generazionale, poiché l’uso delle tecnologie non varia principalmente in rapporto all’età. Altri elementi che incidono sui livelli di accesso, uso e competenze sono infatti il background sociale ed economico, fattori culturali e di contesto, in una parola il capitale sociale delle persone.

3) Il moral panic. Riprendendo un concetto proposto nel 1972 da Stanley Cohen, si sottolinea come la questione dei nativi digitali sia troppo enfatizzata, con toni spesso drammatici, soprattutto relativi all’inadeguatezza dei sistemi educativi ed in particolare degli insegnanti (immigranti digitali) di fronte alla generazione dei nativi.

Da parte di alcuni viene sottolineato in modo particolare questo pericolo, ovvero che la metafora dei nativi digitali diventi uno slogan; in questo senso Gianni Marconato, psicologo esperto di tecnologie dell’educazione e blogger, ha usato il termine “stereotipo dannoso” in un post molto critico[33].

Sul piano più strettamente teorico, autori come Buckingham e Selwyn, professori dell’Institute of Education di Londra, evidenziano come le posizioni di autori come Prensky sottintendano implicitamente una visione deterministica della tecnologia che attribuisce alla tecnologia stessa un potere trasformativo rispetto alla società: la tecnologia trasforma i nostri figli, la tecnologia trasforma le abitudini culturali, la tecnologia trasforma le infrastrutture sociali.

Ma siamo certi che sia davvero così?

Selwyn, in un articolo disponibile online,[34] dimostra i limiti di queste forme di determinismo tecnologico duro, e rivendica un ruolo più che mai attivo delle istituzioni educative nel campo delle tecnologie ed in particolare dei media.

Antonio M. Battro e Percival J. Denham[35], ritengono i nativi la prima manifestazione di un intelligenza digitale, che esplorerò nel prossimo capitolo e si pongono sul versante di chi sostiene una differenza antropologica fra la generazione dei nativi digitali e le generazioni precedenti.

Risulta inoltre interessante illustrare la posizione di Spitzer in merito alla tecnologia e i suoi influssi sulle nostre vite. L’autore all’interno del suo volume[36] sostiene in maniera netta la negatività dell’influsso dei media digitali sui giovani.

Spitzer arriva ad avere toni catastrofistici parlando di” Demenza Digitale”.

Spitzer sostiene infatti che  “i media digitali riducono l’uso del cervello e, quindi, il rendimento nei giovani. I media impediscono anche la formazione del cervello; […] Questo non riguarda soltanto il nostro pensiero bensì anche la volontà, le emozioni e soprattutto il comportamento sociale.”[37]

Ma, aldilà delle connotazioni positive o negative attribuite alla tecnologia e ai giudizi di valore etico-morali, l’aspetto che ci interessa maggiormente evidenziare, e che sta alla base di questo tipo di ragionamenti, è che l’attività mentale sia in grado di apportare modifiche alla struttura del cervello e, di conseguenza, che un certo tipo di attività mentale agirà sul cervello in maniera differente, negativa o positiva che sia, sul nostro cervello.

Altra posizione, forse portata su un versante provocatorio, è quella di Kurzweil che sostiene che sia proprio un fatto che dal punto di vista antropologico i bambini nati dopo il 1996 abitano e vivono, almeno nelle società avanzate, in uno stato del mondo molto differente da quello che abbiamo esperito noi immigranti digitali.

Kurzweil parla di una “singolarità tecnologica” risultante dalla combinazione della genetica, delle nanotecnologie, delle tecnologie digitali e dalla robotica, il cui impressionante sviluppo negli ultimi anni porterà ad una “singolarità” nella storia evolutiva della nostra specie, migliorando i nostri corpi e le nostre menti.[38]

Certamente il ricercatore non può arrivare ad una conclusione univoca e certa, e il suo scopo è quello di offrire un contributo alla comunità scientifica analizzando nel dettaglio alcune delle domande che sorgono da questo dibattito.

In questo ambito la velocità dei cambiamenti tecnologici è talmente alta da anticipare il dibattito e da distanziare immediatamente i risultati delle analisi scientifiche proposte dai ricercatori.

Non si può che tentare di fornire una testimonianza di un momento specifico come ha fatto nei suoi i contributi Mantovani sul tema e sulle prime domande.

Da un punto di vista antropologico questo dibattito si pone all’interno dell’analisi della dicotomia natura/cultura propria della nostra società, dalla rivoluzione scientifica in avanti. Il fulcro della discussione ruota intorno alla domanda se esista un cambiamento strutturale dell’essere umano a partire dall’avanzamento delle ITC:

Il dibattito si fonda su alcune domande:

Esiste una mutazione in senso biologico, una trasformazione sostanziale del cervello? Oppure si tratta di una trasformazione culturale e quindi non universale?

Queste due domande restano su termini riduzionistici nel rispetto della logica della dicotomia natura/cultura, da sempre al centro del discorso antropologico, negli ultimi anni sempre più messa in discussione come una peculiarità occidentale.

 

2. La mente, il cervello e il dibattito sullintelligenza digitale

 

In questo capitolo vorrei fare una premessa sugli studi sul cervello, su come si sono sviluppati, e la situazione ad oggi delle neuro-scienze in relazione all’apprendimento. In seguito, nel secondo paragrafo, passerò alla definizione e all’argomento intelligenza digitale.

Mente e cervello: neuroscienze

E’ importante passare in rassegna le diverse rappresentazioni della mente e del cervello per comprendere come ci sia una relazione con il dibattito in corso e come ci siano delle relazione tra cervello e ambiente nel quale viviamo. L’approccio al tema della mente è passato per ambiti disciplinari diversi nel corso della storia e nei diversi contesti geografici e culturali.

Dapprima era la filosofia, nella tradizione filosofica occidentale, una delle questioni che si è imposta maggiormente, in quanto disciplina che si pone in termini di comprensione della duplice natura che compone l’essere umano.

A partire dal pensiero di Platone fino alla rivoluzione scientifica e in particolare alla pubblicazione del “Discorso sul metodo” di Cartesio la filosofia è stata la disciplina che ha maggiormente contribuito alle riflessioni sul tema della mente. Con il pensiero scientifico e la dicotomia introdotta da Cartesio tra res cogitans e res extensa è stato possibile studiare la mente secondo il paradigma moderno, ovvero attraverso l’osservazione diretta, la misurazione e la verifica: in sintesi, attraverso il metodo scientifico.

Anche la tradizione psicoanalitica, inaugurata da Freud, ha mantenuto un approccio epistemologico fondato sulla separazione tra mente e corpo, sebbene nel corso del Novecento si sia sempre più andati verso l’integrazione di queste due parti.  In questa ricerca di integrazione alcune discipline si sono posizionate più vicine a un polo piuttosto che all’altro. Ad esempio, se la psicologia cognitiva tralasciava la biologia, le neuroscienze di base davano molto più spazio alla materia.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’analisi del fenomeno della mente ha preso due opposte direzioni: da una parte si trovano le scienze dure, che studiano il cervello, il suo funzionamento elettrochimico, a partire dall’osservazione diretta; dall’altra, troviamo le scienze umane che si oppongo a questa visione considerandola riduzionistica e incapace di rendere conto della complessità culturale, psicologica, ideologica, emozionale che costituisce il fenomeno della mente e più in generale l’umano.

Tutta la ricerca sul cervello, gli studi, anche interdisciplinari, hanno sempre avuto come filo conduttore “filosofico” un tema caro all’antropologia: il rapporto natura/cultura.

Le neuroscienze, in particolare con il loro esponente più famoso Antonio Damasio hanno mostrato “l’errore di Cartesio”, prendendo in considerazione l’unità necessaria tra mente e cervello, tra biologia e spirito, tra natura e cultura. Infatti, “le nostre menti non sarebbero quelle che sono se non fosse per l’azione reciproca di corpo e cervello nel corso dell’evoluzione.”[39]

La ricerca neuroscientifica si muove, a livello macro, per ricomporre mente e cervello e cercando di ricomporre una visione unitaria dell’uomo.

Riguardo a questi cambiamenti di prospettiva Rivoltella mostra il rischio di cadere in una sorta di “neuro-entusiasmo”, il cui pericolo è “simmetrico e opposto rispetto a quello della psicologia cognitiva: essa dimenticava la biologia sostenendo che lo spazio e i problemi dell’agire umano sono una questione di modelli e di stili mentali, gli sviluppi delle neuroscienze di base possono invece promuovere una visione riduzionistica della mente con il risultato di confinare l’umano nello spazio della materia.”[40]

In questo ambito, Rivoltella, mostra però come la scelta operativa delle neuroscienze cognitive sia proprio quella di “occuparsi di quei fenomeni mentali complessi in cui è più evidente l’insufficienza di un approccio semplicemente biologico e di uno esclusivamente cognitivo.”[41]

Le neuroscienze si occupano di indagare il funzionamento del nostro cervello, in particolare come questo ci abiliti a pensare. In questo senso, le neuroscienze danno ampio spazio all’osservazione delle modalità di apprendimento, peculiarità che ci riporta direttamente alla tematica dell’educazione.

In relazione alle ITC, la prospettiva delle neuroscienze offre alcune vie di ricerca. In particolare sulla formazione e sull’aumento di reti neuronali e di plasticità neurale a partire da stimoli ambientali, e quindi sulla correlazione tra ambiente e cultura e le trasformazioni biologiche in ambito del cervello umano.

Per plasticità neurale si intende “la capacità del cervello di essere modellato dall’esperienza. Il grado di plasticità neurale varia a seconda della regione del cervello e della fase di sviluppo”[42]. Ciò dà spazio all’idea che esistano periodi critici durante i quali l’esperienza è necessaria per scolpire in maniera appropriata i circuiti neurali per alcune funzioni cerebrali. È su questi periodi critici che concentrerò maggiormente l’analisi, pur riconoscendo che “perfino il cervello adulto è molto più plastico di quanto non si fosse mai immaginato prima.”[43]

E possibile osservare attraverso il sistema di imaging, sempre più raffinato, un aumento delle strutture celebrali, da un punto di vista delle dimensioni e delle possibilità funzionali, a partire dall’aumento degli stimoli cerebrali in un “ambiente arricchito”. Nelle prime fasi dello sviluppo, i geni dirigono la maggior parte delle decisioni sulla formazione del cervello. Le possibilità di influenza ambientale crescono gradualmente con il progredire dello sviluppo.[44]

In parallelo all’azione dei geni, l’ambiente in cui l’individuo si sviluppa e dal quale riceve gli stimoli sensoriali nel corso della vita ha un’influenza notevole sul cervello e, di conseguenza, sul comportamento. Nelle fasi precoci dello sviluppo l’esperienza ambientale guida la maturazione delle connessioni tra i neuroni, regolando i processi che portano al cablaggio fine dei circuiti nervosi, con effetti marcati sull’anatomia e la fisiologia del cervello. Un’alterata o ridotta esperienza sensoriale può causare deficit funzionali. Viceversa, un’aumentata stimolazione sensoriale e motoria (arricchimento ambientale) promuove la maturazione dei circuiti nervosi, che completano i programmi di sviluppo in tempi più brevi. Nell’adulto, una vita ricca di stimoli ha un ruolo essenziale per la corretta funzionalità cerebrale, guidando il rimodellamento dei circuiti neuronali in risposta ai cambiamenti ambientali (plasticità cerebrale) e contribuendo a conservare l’integrità anatomofunzionale del cervello durante gli anni del decadimento fisiologico che si verifica con l’invecchiamento.

Se ne deduce che l’ambiente può essere considerato un ambiente deprivato, in cui c’è un basso livello di stimoli, oppure un ambiente arricchito, ovvero con un alto livello di stimoli ambientali, in particolari condizioni.

Questa idea si avvicina molto alla proposta di Prensky sulla “mente aumentata” per l’influenza dell’ITC, ovvero sull’aumento di abilità e capacità mentali correlato allo sviluppo di quest’ultima.

A questo punto, sorge la domanda: l’ITC è un ambiente arricchito?

A questo proposito è opportuno analizzare le definizioni di ambiente arricchito in relazione alla plasticità neurale, confrontandoli con le idee di Prensky sulle caratteristiche dell’ambiente trasformato dalle tecnologie.

Un contributo fondamentale allo sviluppo del dibattito natura/cultura venne dagli esperimenti di Mark R. Rosenzweig e collaboratori, che introdussero il paradigma dell’arricchimento ambientale quale protocollo sperimentale specificamente dedicato allo studio dell’influenza dell’ambiente sul cervello. Questi autori mostrarono che la morfologia, la chimica e la fisiologia del cervello possono essere alterate in modo marcato incrementando la qualità e la quantità degli stimoli ambientali. L’arricchimento ambientale può essere definito come la combinazione di una complessa stimolazione inanimata e sociale. Gli animali arricchiti sono allevati in gruppi sociali numerosi all’interno di ambienti di grandi dimensioni dove sono presenti oggetti di varia natura (giochi, tunnel, scale, tane), cambiati di frequente per posizione e tipologia. Una componente essenziale dell’ambiente arricchito è data dall’opportunità per gli animali di svolgere un’intensa attività fisica volontaria mediante le ruote di movimento. L’arricchimento ambientale, specialmente se confrontato con una condizione ambientale standard, fornisce condizioni  favorevoli e ottimali per l’esplorazione, l’attività cognitiva, l’interazione sociale, l’esercizio fisico, il gioco.

Per ambiente arricchito si intende la possibilità di ricevere molti stimoli e di qualità, di interagire con gli stimoli, preferibilmente in un gruppo di pari in cui è possibile l’interazione sociale attraverso attività di vario genere.

Prensky, sostiene che le caratteristiche delle forme di apprendimento legate all’ITC che sono servite per definire i nativi digitali sono fra gli altri, la condivisione e co-creazione della conoscenza, che rimanda a una condivisione di un ambiente tra pari; l’atteggiamento è propositivo, interattivo e costruttivo. Inoltre, come analizzato nel primo capitolo, “Vi è un alto grado di personalizzazione degli strumenti e dei giochi. Vi è una condivisione sia orizzontale sia verticale dei contenuti e degli strumenti. Se ne deduce che il mondo della rete, il mondo digitale sono per loro un luogo di socialità, di relazioni aperte…”.[45]

Si può notare che le caratteristiche dell’ambiente arricchito possono essere messe in relazione con le forme di apprendimento guidate dalla presenza delle tecnologie sempre maggiore nelle nostre vite attraverso l’aumento della plasticità neurale.

Se si aggiunge che la plasticità è maggiore in alcuni specifici periodi della crescita, che vengono chiamati critici, è possibile formulare l’ipotesi che ci sia una correlazione tra l’avanzare delle ITC con una trasformazione, una modificazione strutturale dell’essere umano.

In questa tesi, mi soffermo in particolare sull’età dei 6-7 anni, quella del passaggio dall’asilo alla scuola primaria, considerato un periodo “importante”, non solo da parte delle neuroscienze ma anche dalla tradizione pedagogica e psicologica che si è sviluppata nel corso del Novecento, fra gli altri Piaget, Vygotski, Rogoff. Molti degli studi pedagogici si sono sempre rivolti al tema dello sviluppo del bambino, in riferimento alle possibili metodologie di apprendimento ai fini della crescita.

Piaget sottolinea più volte l’importanza della interazione sociale tra pari promuovendo reciprocamente lo sviluppo cognitivo attraverso processi di risoluzione, tentativi continui ed empirici di soluzione dei problemi nei conflitti cognitivi o di diversità di vedute che deriva dalla discussione dei vari punti di vista. Il conflitto cognitivo indotto dall’interazione tra pari contribuisce, per Piaget, in misura molto significativa alla crescita cognitiva.

Vygotskij ha invece sempre messo l’enfasi sulla competenza, cioè sullo sviluppo condiviso con partner più esperti,  ma anche sul gioco come strumento centrale dello sviluppo cognitivo. Certamente è pensiero comune che i bimbi progrediscano grazie alle abilità e alle prospettive offerte dall’ambiente nel quale vivono e nel mondo nel quale esperiscono tutte le attività anche con l aiuto delle altre persone ma soprattutto con il confronto con i propri pari.

Tutto questo non è il problem solving, lo sharing, il mettersi insieme, il confrontarsi non più uno a molti, ma in condivisione con tutti?

Con il mondo digitale non si fondono entrambe le linee principali della scuola di Piaget e di Vygostkij, o almeno non ci può essere questa opportunità?

Nel Mondo digitale il coinvolgimento reciproco dei bambini e dei loro compagni con tutte le caratteristiche viste nel primo capitolo non fornisce già di per sè un sostegno forte e forse maggiore di una volta allo sviluppo del bambino?

Un contributo sicuramente più attuale, ma che si colloca sulla stessa scia tracciata finora, risulta essere quello di James P. Gee, maggior esponente New Digital Media Learning prezzo l’Arizona States University. Egli ritiene, infatti, essenziale ai fini della comprensione e dell’apprendimento è l’esperienza e l’imitazione. Il videogioco, dal suo punto di vista, diviene quindi per i giovani un essenziale strumento di crescita che potrebbe in questo senso suggerire al sistema scolastico un modo nuovo di pensare l’apprendimento.

Il videogioco velocizza l’apprendimento dei ragazzi in quanto offre “repertori di esperienze da utilizzare strategicamente per prevedere come comportarsi in situazioni analoghe o per far fronte, adattandole, a situazioni nuove che non si erano ancora sperimentate.”[46]

Ma, è importante sottolineare che, l’autore riferendosi al videogioco come strumento educativo non allude ai suoi dispositivi concreti, alla sua parte hardware, come lo schermo, ma al suo linguaggio, ovvero la sua capacità appunto di far apprendere attraverso l’esperienza. Gee, all’interno del suo volume Come un videogioco, prosegue affermando che l’apprendimento, a livello di senso comune, sia concepito come contenutistico e perciò spesso il videogioco venga accusato di sottrarre tempo

all’educazione dei giovani. Iniziare a concepire l’apprendimento come un fattore esperienziale, quindi più pratico che teorico, porterebbe anche a un tipo di istruzione e educazione più attivi e più propensi al problem solving.[47]

Forse il nuovo ambiente digitale in cui i bambini crescono non è sufficiente per parlare di differenza antropologica generazionale, ma forse permette di pensare all’opzione di una mente aumentata.

 

 

L’intelligenza digitale

 

“Abbiamo la facoltà remota di pensare a tutto, incluso a quello di cui

forse non abbiamo idea”

Leibniz

 

Etimologicamente l’intelligenza è quel complesso di funzionalità e abilità psichiche e mentali che permette ad un soggetto in primo luogo di capire, oppure la capacità generale di capire in sé; dove per “capire” si intende qui giungere autonomamente a delle conoscenze reali per merito di proprie elaborazioni di informazioni.

La proprietà cognitiva dell’intelligenza è implicata nella buona esecuzione di tutte le attività della mente che comportino un lavorare sulle informazioni che si possiede per andare oltre; esempi di queste attività sono “trarre delle conclusioni a partire da ciò che è noto, fare previsioni riguardo al futuro, esprimere un giudizio, risolvere un problema mai incontrato in precedenza, scoprire in una situazione aspetti prima non considerati”,[48] creare nuovi prodotti (di qualunque genere) che risultino poi efficaci dal punto di vista del loro creatore. L’intelligenza si manifesta principalmente nella scoperta, da parte del soggetto che la detiene, delle relazioni che intercorrono tra gli elementi del suo pensiero, sapere, passato e ambiente, e si percepisce nella capacità del soggetto di comprendere, adattarsi e fronteggiare con successo nuove situazioni; dunque, può essere concepita anche come una capacità di adattamento all’ambiente.

Caratteristica propria in primo luogo dell’uomo o delle specie animali; studi recenti testimoniano tuttavia che anche le piante presentano dei comportamenti che sembrano rinviabili a qualche forma di “capacità di capire”. Il termine “intelligenza” è usato anche in riferimento alle macchine: il campo di ricerca della cosiddetta “intelligenza artificiale” tenta di creare delle macchine che siano in grado di riprodurre l’intelligenza biologica, almeno in alcuni suoi aspetti.

Nella prospettiva del paragrafo precedente è facile comprendere che anche le dimensioni dell’intelligenza si ampliano e che dobbiamo considerare un nuovo tipo di sapere verso cui ci stiamo dirigendo, verso un nuovo tipo di intelligenza definita “digitale”

Intelligenza è una parola che abbraccia un vario campo semantico, le cui radici si perdono nella filosofia antica fino ad arrivare a delle ipotesi nelle quali in futuro cervello, corpo e psiche saranno riconfigurati dall’intensità della simbiosi biotecnologica.

Molte altre definizioni, superando l’ipotesi dell’intelligenza divina come segno divino (da Platone a San Tommaso) o l’intelligenza come prodotto di combinazioni genetiche e razziali (Morton, Broca, Jensen), hanno come comune denominatore sempre l’idea dell’adattabilità alle variazioni dell’ambiente circostante e della risoluzione dei problemi connessi.

Questa interpretazione deriva da un’ampia riflessione epistemologica che parte da Aristotele, il quale sottolineava già la stretta correlazione tra intelligenza e insegnamento,  fino ad arrivare a Piaget e la sua scuola come punto di riferimento importante nei discorsi sull’educazione e sui bambini, mettendo, infatti, in evidenza la stretta dipendenza delle facoltà intellettive dai fattori ambientali e ne rileva il carattere dinamico ed evolutivo.

I filoni sulle teorie dell’intelligenza elaborati nel corso dell’ultimo secolo fino ad arrivare ai giorni nostri sono sostanzialmente due: una è quella dell’intelligenza unica, cioè un’unica abilità generale, l’altra è quella che ha come idea di base che l’intelligenza sia multipla, cioè divisa in varie abilità.

Senza ripercorrere tutti gli studi e le varie teorie elaborate nel corso del XX secolo possiamo però dire che queste ebbero una certa influenza sull’opera di Piaget (1967), in particolare in merito ai suoi studi rispetto al comportamento e alla sua modificazione-adattabilità che si manifesta negli atti cognitivi nei quali ci adattiamo all’ambiente fisico e cognitivo che ci sta intorno.

Stenberg (1985) andò oltre nel vedere questo adattamento anche applicato nei processi del pensiero astratto, per intervenire sull’ambiente modificandolo rispetto alle proprie esigenze.

La teoria dell’intelligenza digitale che andiamo ad illustrare in questo lavoro dialoga con la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner e si rifà esplicitamente al testo Verso un intelligenza digitale di Battro e Denham[49] e alle posizioni espresse in Italia dal Prof. Ferri.

Come ha affermato ormai quasi quindici anni fa Nicholas Negroponte “viviamo in un’era digitale. È impossibile negarlo. Il computer e Internet hanno cambiato la storia dell’umanità.”[50]

Interessante è la teoria sulle intelligenze multiple di Howard Gardner, attualmente considerato uno dei più importanti esponenti dei cosiddetti teorici dell’intelligenza fattorialista, contrapposti ai globalisti. La sua proposta consiste nel considerare priva di fondamento la vecchia concezione di intelligenza come un fattore unitario misurabile tramite il Quoziente d’intelligenza (Q.I.), e sostituirla con una definizione più dinamica, articolata in sottofattori differenziati.  Grazie a una serie di ricerche empiriche e di letteratura su soggetti affetti da lesioni di interesse neuropsicologico, Gardner ha identificato almeno sette tipologie differenziate di “intelligenza”, ognuna deputata a differenti settori dell’attività umana:

  • Intelligenza logico-matematica
  • Intelligenza linguistica
  • Intelligenza spaziale
  • Intelligenza musicale
  • Intelligenza cinestetica o procedurale
  • Intelligenza interpersonale
  • Intelligenza intrapersonale

In seguito, nel corso degli anni ’90, ha proposto l’aggiunta di altri due tipi di intelligenza: quella naturalistica, relativa al riconoscimento e la classificazione di oggetti naturali e quella esistenziale, che riguarderebbe la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali concernenti l’esistenza e più in generale nell’attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali.

Gardner, nei suoi studi sulle intelligenze multiple, propone otto criteri per poter identificare l’esistenza di una forma di intelligenza. La possibilità di parlare di una intelligenza digitale presupporrebbe la necessità di trovare prove sufficienti di una rispondenza a tali criteri.

Questi i criteri che per Gardner determinano la possibilità di individuare una intelligenza:

1- che possa essere isolata in conseguenza di una lesione cerebrale;

2- che abbia una storia evolutiva propria, con diversi livelli di competenza

3- che sia composta di sub-intelligenze;

4- che si possa codificare in un sistema simbolico specifico;

5- che si sviluppi da uno stadio di principiante fino ad uno stadio finale;

6- che presenti casi eccezionali in individui in forma di abilità o deficit;

7- che possa interferire con la funzione di un’altra intelligenza;

8- che si possa misurare.[51]

Gardner sostiene che “i sistemi simbolici parrebbero essersi sviluppati per codificare quei significati cui le intelligenze umane sono più propense.”[52] Lo studio dei sistemi simbolici risulta indispensabile per poter trovare le tracce ed identificare una particolare forma di intelligenza.

Battro e Denham offrono il loro contributo al dibattito riguardante l’intelligenza digitale; gli autori sostengono infatti che sia possibile parlare di una specifica capacità della mente umana, l’intelligenza digitale appunto.

Sulla scorta di questa ipotesi il loro volume, Verso un’intelligenza digitale, ripercorre varie definizioni di intelligenza, soffermandosi sul concetto di intelligenze multiple di Gardner; il loro contributo infatti, si inserisce nella teoria delle intelligenze multiple, proponendo di considerare l’intelligenza digitale come la decima di queste intelligenze.

Seguiamo Battro nel suo ragionamento. “Pensiamo che l’intelligenza digitale si fondi su un’operazione cognitiva che permette al soggetto la selezione di un alternativa semplice: si/no. Possiamo chiamarla opzione clic ed è l’unità fondamentale dell’intelligenza digitale (ad esempio ciò che permette la scelta tra un link, o un tasto piuttosto che un altro). Si tratta di un’abilità di carattere eminentemente pratico e pragmatico non teorico. Dobbiamo constatare che la crescita di questa “abilità digitale” è stata rapidissima ed esplosiva negli ultimi due decenni con la diffusione  senza precedenti dei personal computer, degli smartphone e dei tablet.”[53]

Gli autori giungono quindi a considerare l’intelligenza digitale come una possibile capacità posseduta dalla mente umana, e ritengono che questa venga attivata da ciò che loro definiscono appunto scelta-clic, cioè l ‘abilità di usare l’alternativa base “si o no”, cliccare o non cliccare, azione o non azione, in vari contesti e in specifico nello spazio digitale virtuale [54]

La scelta-clic non risulta essere però un’azione sorta con l’avvento dell’era digitale; si tratta infatti di un’azione, di un’alternativa semplice, di una scelta che “si esprime in differenti ambienti o supporti, nel processo elementare di schiacciare bottoni, manovrare manovelle, premere interruttori di ogni tipo.”[55] In quanto tale, la scelta-clic viene infatti messa in atto, come dimostrato da svariate ricerche, sia da animali[56] che da neonati; si tratta di un’azione basica che però ha esponenzialmente aumentato la propria performatività ed efficacia negli ultimi due ventenni, ovvero con l’avvento dei personal computer e del Web.

L’intelligenza digitale è quindi in grado di sfruttare un’abilità pre-esistente rendendola un meccanismo fondamentale per l’esplicitazione di questa intelligenza stessa. Infatti, “in internet, un clic apre una pagina con scelte multiple, al cliccare di un nuovo pulsante si apre una nuova pagina o si avvia un’azione (si controlla un robot, si ascolta musica, si guarda una fotografia o un video) e così via.”[57] L’intelligenza digitale risulta quindi basata sulla scelta-clic proprio perché sono gli strumenti tecnologici stessi ad essere azionati e controllati attraverso veri e propri clic.

Il codice digitale è un tipo di linguaggio di cui l’essere umano dispone; si tratta di un tipo di linguaggio in grado di creare “un cambio profondo nel nostro sistema di comunicazione sociale, ossia nella nostra cultura.”[58]

Se Battro e Denham quindi affermano l’esistenza di un’intelligenza digitale originale, verso la quale ci stiamo muovendo e che sarebbe in grado di mostrare il suo pieno potenziale grazie ad un uso intensivo della scelta-clic, vediamo però che non tutti condividono l’ipotesi dei due autori nella loro stessa accezione. Gardner sucessivamente ha affermato la possibile esistenza di un’intelligenza digitale originale, ma che ad oggi darebbe maggior importanza agli studi comparati tra le diverse culture: l’intelligenza digitale risulta così essere, a suo parere, un “potenziale che sarà o no attivato dipendendo dai valori di una cultura particolare, dalle opportunità disponibili in questa cultura e dalle decisioni personali.”[59]

Altra posizione da riportare è quella di Rivoltella per decretare la nascita di un’intelligenza digitale si dovrebbe essere già usciti dalla letto-scrittura[60]

In conclusione, ci tengo ad affermare che Battro e Denham, pur sostendendo l’esistenza di una originale intelligenza digitale,  lasciano aperta la possibilità che altre ipotesi possano essere più accreditate, un po’ perché la ricerca è ancora in corso, un po’ perché consapevoli di altri punti di vista; infatti dichiarano che “ci sono delle alternative: per esempio, classificare l’intelligenza digitale come parte dell’intelligenza logico-matematica, come suggerisce lo stesso Howard Gardner, o come parte dell’intelligenza linguistica […], oppure pensare che sia una nuova “intelligenza in germe”, un prodotto culturale proprio di certe società sviluppate, più che una capacità naturale della specie umana.”[61]

 

 

 

 

Il simbionte tecnologico

 

Soltanto da circa sette secoli, e soltanto nel mondo occidentale, il progresso ha avuto un’accelerazione sempre più veloce fino a provocarci, oggi, le vertigini.  Una schematica carrellata non pretende certo di mettere in evidenza in maniera precisa le trasformazioni nella vita dell’uomo innescate dalle tecnologie, ma induce senz’altro una riflessione su come tutta la vita dell’umanità sia da sempre costellata di innovazioni tecnologiche e su come un proto-computer sia rintracciabile in una tacca a forma di V intagliata nell’era paleolitica.

All’inizio del nuovo millennio il web comincia la sua metamorfosi verso il 2.0, popolandosi di blog e social network. Nel 2001 la Polaroid dichiara banca rotta: anche la fotografia si digitalizza ed è pronta ad entrare, in maniera immediata, nel grande flusso di informazioni in codice binario. Anche la musica compie un percorso verso il digitale: nel 2006 la Tower Records liquida. Nell’ultimo trentennio abbiamo assistito ad un’accelerazione vertiginosa dello sviluppo tecnologico  nel settore del digitale. Alla fine degli anni Settanta il primo Bullettin Board System (BBS) su internet permise a quei pochi che avevano un computer ed un collegamento telefonico, di scambiarsi documenti, leggere notizie e scambiare messaggi.

All’inizio degli anni Ottanta si formarono i primi gruppi su Usenet (prototipo di comunità virtuale) che condividevano uguali interessi. Qualche anno più tardi, sempre negli anni ’80, l’e-mail cominciò a diventare uno strumento diffuso, finché, nel 1991, il World Wide Web fece il suo debutto e, solo pochi anni più tardi, era possibile accedere facilmente alla “rete delle reti” grazie ai web browser. Verso la fine degli anni ’90 si assiste ad una grande diffusione di portali, siti di e-commerce e motori di ricerca e dal 2008 ITunes diventa il maggior rivenditore di musica negli Stati Uniti.

Oggi stiamo assistendo ad una esplosione, di vendite di tablet e smartphone ed una progressiva “smaterializzazione” dell’informazione (clouding).

Nell’arco di dieci anni il web ha conosciuto uno sviluppo inimmaginabile e, appena un decennio dopo, nel 2005, era già alla versione 2.0, con un livello di interattività incredibilmente potenziato. Nel 2009 gli adulti nordamericani passavano in rete una media di 12 ore per settimana, il doppio rispetto al valore registrato solo quattro anni prima; ora i ventenni trascorrono più di 19 ore per settimana in Internet. Infine, i bambini americani tra i 2 e gli 11 anni, sempre nel 2009, hanno usato la rete per circa 11 ore per settimana, con un incremento del 60% rispetto al 2004.

Una ricerca internazionale del 2008 condotta su 27.550 adulti tra i 18 e i 55 anni ha rilevato che questi trascorrono online circa il 30% del loro tempo libero: i cinesi in testa con il 44% delle ore non lavorative. In Europa, l’adulto, nel 2009 ha trascorso mediamente 8 ore a settimana in rete, con un incremento del 30% rispetto al 2005.

In queste ricerche non sono state prese in considerazione le ore trascorse utilizzando cellulari ed altri dispositivi elettronici.

Longo colloca il tema nativi digitali (bambini) e tecnologia all’interno del più ampio dibattito del rapporto Uomo-Tecnologia.

Le premesse sono: “primo, tra uomo e tecnologia non esiste distinzione netta, perché da sempre la tecnologia concorre a formare l’essenza dell’umano. Secondo, l’evoluzione della tecnologia contribuisce potentemente alla nostra evoluzione, anzi ormai (quasi) coincide con essa. Le due evoluzioni, biologica e tecnologica, sono intimamente intrecciate in un’evoluzione “biotecnologica”, al cui centro sta l’unità evolutiva homo technologicus, una sorta di ibrido di biologia e tecnologia in via di continua trasformazione. Homo sapiens è sempre stato contaminato dalla tecnologia, cioè è sempre stato homo technologicus.”[62]

L’autore all’interno dell’articolo Uomo e tecnologia: una simbiosi problematica sostiene appunto che il rapporto uomo/tecnologia possa essere considerato una simbiosi; l’homo technologicus, quindi l’homo sapiens trasformato dalla tecnologia, può essere considerato in questo senso un simbionte.

“In biologia si usa il termine “simbiosi” (da greco: vita in comune) per indicare uno stretto rapporto di convivenza e di mutuo vantaggio tra due specie diverse. Un associazione stabile e strettamente integrata tra due organismi. Termine coniato dal botanico Anton De Bary per molto tempo il mutualismo fu considerato una “curiosità”, ma di recente alcune teorie simbiotiche hanno acquisito grande importanza nell’ambito della biologia.

A partire dal significato biologico ed etologico, il termine simbiosi ne ha assunto altri, compenetrandosi in altre scienze, per esempio in psicologia.”[63]

Oggi, la velocità che caratterizza il continuo progresso e sviluppo delle tecnologie, permette di osservare più chiaramente anche l’incessante trasformazione che caratterizza il simbionte biotecnologico. Definito biotecnologico perché, nella relazione tra uomo e tecnologia, l’uomo non risulta essere passivo, anzi, si tratterebbe di una vera propria relazione di reciproca influenza.

Le preoccupazioni comuni che spesso derivano da questa tematica sembrano quindi sottendere un mito della purezza umana, che potrebbe venire contaminata o addirittura danneggiata dalle innovazioni tecnologiche. Secondo Longo, infatti, la tecnologia non deve essere considerata “come un’entità esterna e invasiva”[64]

L’autore infatti prosegue sostenendo che l’uomo da sempre si è servito di strumenti o protesi che gli permettessero una maggior performatività sia corporea che intellettuale e una maggiore interazione con il mondo.

Da sempre il corpo umano è stato ampliato da strumenti e apparati che ne hanno esteso e moltiplicato le possibilità d’interazione col mondo, in senso sia conoscitivo sia operativo. Da sempre l’uomo si è ibridato con gli strumenti da lui costruiti, il solo elemento che cambia è la maggior intensità tecnologica di oggi. Proprio per questo la tecnologia non dovrebbe venir considerata come una protesi dell’uomo, ma come una vera e propria forma di ibridazione. Questo perchè “la protesi supplisce ad un’abilità compromessa o perduta, mentre, innestandosi nell’uomo, ogni nuovo apparato dà luogo ad un’unità evolutiva (un simbionte) di nuovo tipo, in cui possono emergere capacità-percettive, cognitive e attive-inedite e a volte del tutto impreviste, e di questa evoluzione ibridativa non è possibile indicare i limiti.”[65]

Data la velocità dello sviluppo tecnologico anche l’ibridazione con l’uomo risulta sempre più rapida, ed è per questo che le trasformazioni culturali e addirittura fisiologiche si fanno sempre più evidenti (talvolta fino al punto di minacciare il nostro equilibrio biologico ed emotivo).

“Insomma, è come se la conoscenza, lasciandosi alle spalle una lunga storia di astrazione progressiva e di formalizzazione, stesse cominciando ad incorporarsi nel nuovo simbionte uomo-macchina, cioè nell’homo technologicus, e nella “creatura planetaria” di cui Internet è il primo nucleo. In questo senso, la tecnologia, specie quella informatica, segna, dopo un lungo viaggio, un ritorno all’unità e alla completezza multimediale della conoscenza, quale forse c’era agli inizi della nostra storia: ma è un ritorno filtrato e mediato da un codice astratto, quello binario, e gli effetti di questo filtro sono tutti da scoprire.”[66]

Longo, in conclusione dell’articolo, afferma che la tecnologia sia responsabile di una profonda svolta epistemologica e che grazie a questa anche la nostra attività mentale e le esperienze conoscitive umane potrebbero assumere forme inedite e sorprendenti.

 

 

 

 

3. Approccio Antropologico

 

L’uomo è un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto; (per questo) credo che la cultura consista in queste reti e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato.[67]

  1. Geertz

 

I nativi digitali alla luce dell’antropologia e della digital ethnography

L’antropologia può illuminare lo studio della questione delle mutazioni socio-culturali seguite all’introduzione dei nuovi media digitali e di loro nuove applicazioni, e più nello specifico della questione delle peculiarità della generazione dei nativi digitali, finora affrontata da poco in seno alla disciplina, in diversi modi, che comprendono sia alcuni nodi teorici sia alcune ricerche etnografiche già compiute nell’ambito della digital ethnography.[68] Le ipotesi antropologiche, sia di ordine teorico più generale, sia etnografiche specificamente attinenti al campo dei media, si possono mettere in rapporto con quelle formulate nei precedenti capitoli alla luce di altre prospettive disciplinari quali la biologia, la psicologia cognitiva, le neuroscienze e la teoria della comunicazione, illuminandone punti di contatto e di divergenza relativamente ai differenti modi nei quali è stata affrontata la questione dell’impatto della cultura sui gruppi umani e delle sue differenti declinazioni e modalità.

Fra le questioni e ipotesi di ordine teorico, che gettano un ponte tra le varie discipline, si possono individuare innanzitutto l’ipotesi della fondazione paleoantropologica dell’evoluzione formulata nel 1973 da Geertz in Interpretazione di culture, in base alla quale sviluppo culturale ed evoluzione della mente si sono influenzati a vicenda, e in seguito un suo sviluppo e raffinamento operato mediante l’ipotesi ecologica dell’intreccio, imbricazione tra mente, società e ambiente, pratiche e cognizione, il cui principale esponente è Tim Ingold. Passeremo poi ad esaminare più nello specifico alcuni studi relativi all’influenza dei media digitali, e ai primi studi nel campo dell’etnografia digitale e dei nativi digitali.

Se nella rassegna delle teorie possiamo ravvisare possibili ipotesi e direzioni di ricerca, che collegano i nuovi media digitali a studi già compiuti e cornici teoriche più ampie sugli intrecci tra tecniche e pratiche in quanto manifestazioni di plasticità mentale, culturale e interazione reciproca e retroattiva con l’ambiente, in quella delle etnografie possiamo reperire i primi elementi di studi concreti sul campo e confrontarli con le teorie in modo da esaminare queste ultime alla luce di un raffronto critico.

Cultura ed evoluzione della mente

La teoria dello sviluppo culturale viene messa in campo da Geertz nei saggi “L’impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo” e “Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente”, che in Interpretazione di culture (1973, 1988) servono come ipotesi di collegamento ed esplicative rispetto alla teoria interpretativa della cultura quale sistema condiviso di significati simbolici, che tanto peso ha avuto nella storia dell’antropologia. Senza soffermarci su questa ci limiteremo ad analizzare il modo in cui l’antropologo americano stabilisce un rapporto tra natura, intesa come sostrato biologico e materiale, evoluzione organica e mentale, e cultura, basandosi sulle scoperte neuroscientifiche del periodo in cui scriveva.  Nell’affermare l’importanza della cultura per il genere umano, Geertz confuta la tesi secondo la quale la cultura sia giunta al termine del processo evolutivo umano, e sostiene invece che natura e cultura si siano intersecate in un processo interattivo che ha consentito all’uomo di completare il suo processo evolutivo, e che anche nel presente l’uomo sia un essere incompleto senza l’apporto della cultura, che gli fornisce delle indicazioni precise su valori e comportamenti. Ne consegue che benché vi sia una unità psichica del genere umano, e che quindi tutti gli esseri umani abbiano lo stesso livello di sviluppo cognitivo, non esiste una natura umana universale, e ogni gruppo umano possiede sue caratteristiche culturali specifiche che orientano pensieri, emozioni, abilità e azioni, dando quindi vita a diversi modi di essere uomini, determinati dalla cultura. La maggior parte dei cambiamenti biologici nell’uomo proverrebbe dal sistema nervoso centrale e dal cervello, a sua volta influenzato dalla cultura, consistente in una serie di simboli significanti contenenti istruzioni per il comportamento, e la produzione e l’uso di manufatti. Entrano in gioco in questo rapporto tre componenti, che sono il cervello, il corpo e la cultura.

Geertz avanza la teoria che “tra il modello culturale, il corpo e il cervello fu creato un effettivo sistema di retroazione in cui ciascuno dei componenti foggiava il progresso dell’altro, un sistema nel quale l’interazione tra l’uso crescente degli attrezzi, la mutante anatomia della mano e l’espansione della rappresentazione del pollice sulla corteccia cerebrale sarebbero soltanto uno degli esempi più vistosi. Sottomettendosi alla guida di programmi simbolicamente mediati per produrre manufatti, organizzare la vita sociale o esprimere emozioni, l’uomo determinò, anche se inconsciamente, le fasi culminanti del suo destino biologico. Letteralmente, anche se senza saperlo, creò se stesso.”[69]

Per Geertz l’uomo è un animale incompleto che ha bisogno della cultura per completarsi e definirsi, e “la maggior parte dell’espansione corticale umana ha seguito, e non preceduto, l’“inizio” della cultura”[70]. L’emergere sincronico di un proencefalo espanso, di forme elaborate di organizzazione sociale e di modelli di cultura istituzionalizzati indica a dire dell’antropologo che la procedura standard di trattare in serie i parametri biologici, sociali e culturali – il primo considerato primario rispetto al secondo, e il secondo al terzo è errata. Al contrario, questi cosiddetti livelli dovrebbero intendersi come reciprocamente collegati e quindi da esaminare congiuntamente.

I termini in gioco in realtà possono essere considerati quattro, poiché includono anche la mente, che non coincide esattamente con il sostrato materiale del cervello e del sistema nervoso centrale. La mente viene infatti definita da Geertz come “una classe di abilità, inclinazioni, capacità, tendenze, abitudini (…) e come tale non è né un’azione né una cosa, ma un organizzato sistema di disposizioni che trova la sua manifestazione in talune azioni e cose.”[71] L’analisi dell’evoluzione della mente deve occuparsi di ricostruire lo sviluppo di certi tipi di abilità, capacità, tendenze negli organismi e di identificare i fattori o i tipi di fattori da cui dipende l’esistenza di tali caratteristiche. Nell’introdurre il legame tra mente e abilità, Geertz afferma una connessione tra livello biologico, psicologico e culturale. Lo sviluppo culturale sarebbe per l’antropologo, sulla scia delle ipotesi di Kroeber, il risultato di una accumulazione che ha avuto un ruolo attivo nel determinare le fasi finali dello sviluppo organico.

Se Geertz ipotizza e sostiene una concomitanza tra evoluzione mentale e crescita culturale, non si spinge però a tracciare un quadro delle possibili relazioni tra le due dimensioni. Altri due aspetti sono inoltre significativi. Uno è che lo sviluppo evolutivo biologico parrebbe a suo avviso essersi completato, e che al presente si tratterebbe solo di completare l’incompletezza biologica con contenuti e istruzioni culturali. L’altro è che per Geertz, benché vi sia nell’uomo una connessione tra livello biologico, cognitivo e mentale, permanga tuttavia una divisione tra dimensione umana e natura, in virtù della quale a partire dal Pleistocene e dalle sue condizioni particolarmente propizie allo sviluppo evolutivo “l’ambiente culturale ha sempre più sostituito l’ambiente naturale nel processo di selezione.” [72]

 

 

L’ipotesi ecologica

Di collegare questi aspetti si è occupato invece un altro ramo dell’antropologia, definito come “antropologia cognitiva”, che indaga sulle relazioni tra ambiente, attività mentale e specificità culturali. Per riassumere brevemente, diremo che in un primo periodo l’antropologia cognitiva ha postulato la cultura come un sistema di organizzazione cognitiva dei fenomeni secondo regole astratte e generali[73]  si è interessata soprattutto al contenuto e all’organizzazione classificatoria dei sistemi di conoscenze, conferendo preminenza alle operazioni e agli schemi mentali a con una prevalenza rispetto agli aspetti sensoriali e pratici. In seguito si è avuta la cosiddetta “svolta pratica” che ha spostato lo sguardo sull’azione, sugli agenti, sulla comunicazione e la performance.[74]

Da una parte possiamo dire quindi che l’antropologia ammette la possibilità di un legame tra evoluzione o mutamento biologico ed evoluzione o mutamento culturale. Dall’altra vi è però da affrontare la questione della mente, dei comportamenti, del modo in cui si conosce e si apprende, e del  legame tra questi aspetti e la cultura.

Rappresentante cruciale di questa svolta è Gregory Bateson, che introduce la nozione di feedback o retroazione delineando in Naven due possibili modelli di interazione tra sistemi o gruppi, simmetrico o complementare. Se il primo rischia di far saltare un sistema perché prevede una serie di reazioni nella stessa direzione (ad esempio aggressività come risposta ad aggressività), il secondo consente un adattamento e un equilibrio dinamico tra le parti all’interno di una società in un sistema di relazioni. Negli studi su cultura e personalità compiuti con Margaret Mead a Bali (1942) Bateson ha modo di evidenziare come le logiche pratiche alla base delle azioni individuali vadano ricercate nell’interazione madre-bambino delle prime fasi dello sviluppo infantile, e come quindi questa età sia importante e determinante per le pratiche successive. In seguito l’antropologo elaborerà la nozione di deteuroapprendimento, modalità di apprendimento che avviene attraverso pratiche di pensiero e comunicazione non deliberate, parte consistente delle quali sono inconsce e avvengono durante l’infanzia[75] L’antropologo è da considerarsi inoltre iniziatore dell’antropologia ecologica, poiché utilizzando il modello cibernetico, che adotta una prospettiva sistemica esaminando le interrelazioni tra le parti di un insieme, formula la teoria che individuo, società ed ecosistema costituiscano parti di un unico sistema cibernetico. Nella visione cibernetica infatti ogni sistema organizzato si caratterizza per la coordinazione delle sue parti, e per il controllo che alcune di esse esercitano su altre attraverso meccanismi di scambio di informazioni di tipo circolare. L’ informazione che giunge da una data azione viene ricorsivamente reintrodotta nel sistema e gli consente di regolare l’attività successiva modificandola. Bateson elabora inoltre la nozione di cornice o frame, struttura mentale di tipo metacomunicativo, nella quale interagiscono esperienze passate e modifiche prodotte in interazioni reali, che offrono modelli di interazione tra i soggetti, e tra questi e l’ambiente.

“La cornice determina il sottoinsieme di segnali nell’ambito dei quali sussistono determinate regole; in altre parole è sempre possibile dire di quale cornice stiamo parlando elencando le regole che essa delimita, e viceversa, se può essere indicata la cornice, essa può essere utilizzata per riferirsi alle regole che essa delimita.”[76]

In genere una cornice può essere intesa come un contesto le cui parti sono costituite da legami, e il tutto rientra il una struttura  o pattern che contiene cornici e connette tra loro i legami. Le cornici sono definite da Bateson con la metafora dei chichés del tipografo in cui disporre ordinatamente le frasi, usando la logica come collante delle idee, in un modo che non può non ricordare i giochi linguistici di Wittgenstein, e che però non è non deve essere rigido, ma mutevole e flessibile.[77] Conformemente alla sua teoria ecologica, la conoscenza è intesa come una costruzione nella quale il soggetto si relaziona con altri soggetti e con il suo ambiente.

 

“La conoscenza viene definita in questo senso una dinamica ecologica. Per Bateson, i processi cognitivi avvengono, infatti, all’interno dei sistemi viventi e i sistemi viventi sono innanzitutto sistemi cognitivi nei quali vivere e conoscere: da questa idea si muove una radicale svolta epistemologica. E, se fino a Lamarck la mente era stata la spiegazione del mondo biologico, ora, riconoscendo questa circolarità e interdipendenza fra processi cognitivi e sistemi viventi (conseguenza del rifiuto di ogni dualismo), il mondo biologico può costituire la spiegazione della mente. La mente non è qualcosa di soprannaturale, ma non è certamente qualcosa di solo materiale: è qualcosa di vivente, di ecologico.”[78]

Più recentemente è stato l’antropologo inglese Tim Ingold ad avanzare articolate ipotesi sull’interazione tra soggetti e ambiente, stabilendo un preciso collegamento tra pratiche e cognizione secondo una prospettiva ecologica, che vede il farsi della cultura umana in continua interazione con l’ambiente: un ambiente che in buona parte è costruito e modellato dagli uomini stessi.

Ripensando in modo forte la teoria e pratica antropologica relativamente al rapporto tra natura e cultura Ingold, al posto di tracciare un confine netto tra ambiente ed esseri umani, con la loro creazione di cultura, sostiene che questi due termini costituiscano un unico insieme, e che non esiste separazione tra soggetto percepente e oggetto percepito. Questa sua visione può essere colta in particolare in un suo saggio sull’abitare e sul costruire, nel quale Ingold confuta che si abiti un ambiente che si è prima costruito su di uno sfondo materiale oggettivamente preesistente, ma che l’abitare quale atto interpretativo e immaginativo preceda il costruire. A questo proposito l’antropologo si rifà alla nozione di Jacob von Uexkull di Umwelt, ambiente circondante, costituito dalla percezione e dalle pratiche degli organismi. Elaborata inizialmente in prospettiva ecologica ed etologica, la nozione di Umwelt ha acquisito successivamente un’accezione semiotica in virtù delle elaborazioni di Thomas Sebeok. In questa l’uomo interpreta attivamente il mondo in cui vive, e non esiste dunque cesura tra mente e mondo. Gli aspetti della Umwelt, collegati tra loro, costituiscono “oggetti di esperienza”[79] e sono legati in una serie di relazioni alla costituzione cognitiva degli esseri od organismi che li percepiscono, e che sono immersi in una bolla formata da quest’insieme di relazioni. Lì dove la prospettiva semiotica è prioritariamente interpretativa e sensoriale, e riguarda l’uso del linguaggio e dei significati, quella di Ingold è pragmatica.

“Le forme che le persone costruiscono, nell’immaginazione o sulla terra, emergono nel flusso della loro attività, nei contesti specifici di relazione del loro coinvolgimento pratico con ciò che li circonda. In breve, le persone non importano le loro idee, progetti o rappresentazioni mentali nel mondo, proprio perché quel mondo, per prendere a prestito una frase di Merleau-Ponty, è la patria dei loro pensieri. (… ) I bambini, come i piccoli di altre specie, crescono in un ambiente “arredato” dal lavoro delle generazioni precedenti, e mentre crescono essi incorporano letteralmente le forme del loro abitare, nel proprio corpo – in abilità, sensibilità e disposizioni specifiche.”[80]

E se pensiamo a un ambiente tecnologico, come abitato, costruito e arredato da noi, ci chiediamo di quali relazioni e di quali esperienze questo possa essere costituito, in una interazione tra persone e tecnologie. La tecnologia riveste peraltro un posto importante nella visione ecologica di Ingold, poiché relazioni tecniche e sociali sono imbricate le une nelle altre “e possono solo essere comprese all’interno di questa matrice relazionale, come un aspetto della socialità umana”,[81] in virtù della quale si sviluppano skills o abilità tecniche, intese come “capacità di azione e di percezione che sono incarnate nel corpo e che si imparano nel corso della manipolazione di oggetti e il padroneggiamento di compiti quotidiani durante tutta la vita”[82] utilizzando “le qualità della cura, del giudizio e della destrezza”, in “un coinvolgimento attivo e percettivo con le cose”, in un’ “educazione dell’attenzione”[83] che non è mai individuale ma sempre presente e sviluppata all’interno di un sistema di relazioni.

Se gli esseri umani apprendono a usare gli oggetti, sono a loro volta “usati” e diretti dagli oggetti stessi. Il filosofo e sociologo Bruno Latour ha sviluppato infatti una visione sulla  mediazione tecnologica in base alla quale ritiene opportuno descrivere etnograficamente la capacità di agency degli stessi oggetti tecnologici, quali artefatti che comunicano modelli di azione. Le pratiche esperte che derivano da questa interazione possono portare per Latour a una rivoluzione del modo di pensare, così come derivò dall’influenza dei mezzi a stampa sulla rivoluzione copernicana o all’invenzione della camera oscura, che consentì una nuova visione del mondo.[84] Gli artefatti e le tecniche di cui gli artefatti sono caricati dagli esseri umani possono essere a loro volta di nuovo ritrasferiti agli attori, prescrivendo comportamenti routinari.

Gli oggetti “compiono azioni sociali e prescrivono determinati comportamenti agli esseri umani, per cui devono essere considerati contemporaneamente come prodotti dei contesti sociali che li hanno progettati, e come partecipanti a contesti che coinvolgono i propri utenti. E’ questo il principio di “simmetria estesa” dell’action-network theory secondo il quale l’oggetto di studio di un’ “antropologia simmetrica” sono le alleanze tra attori umani e non umani nella pratica mediata tecnologicamente. La “sociologia degli oggetti” di Latour si basa quindi sulla tesi fondamentale che si possono iscrivere e incorporare “proprietà sociali” in oggetti mobili e scambiabili, in modo tale da condizionare e dare forma alle relazioni di chi li manipola e li scambia,[85] ma anche di operare una riorganizzazione percettiva a motoria nei confronti dell’ambiente.[86]

Anche Ingold alla stregua di Latour considera i processi tecnologici come parte dei processi sociali, e di conseguenza il loro studio come parte dello studio delle relazioni sociali, o “dei sistemi di significato che passano sotto il nome di cultura”,[87] “in un ambiente riccamente strutturato”[88]. L’antropologo non stabilisce una netta distinzione relativamente a un momento storico in cui la tecnologia sarebbe apparsa in quanto fattore di cesura tra mente e società da una parte, e natura dall’altra, ai fini di un controllo sulla natura stessa mediante la razionalità strumentale. Per Ingold però “le capacità di agire degli animali, sia degli animali umani che degli animali non umani, non sono né innate né acquisite ma sono proprietà emergenti del sistema totale evolutivo costituito dalla presenza dell’animale nel suo ambiente.”[89]

La storia non appare quindi come quel momento in cui l’uomo, biologicamente completo, inizia a produrre artefatti tecnologici, ma una continuazione di un processo evolutivo in cui gli uomini stessi stabiliscono le condizioni ambientali, in una continua retroazione che avviene all’interno di un campo di relazioni.[90] Ingold non pare stabilire una netta differenza tra oggetti semplici e sofisticati in quanto tali, avulsi dal contesto, poiché ciò che conta è il sistema oggetto, il suo uso che comprende anche l’abilità nell’usarlo. L’artefatto, in altri termini, è la cristallizzazione dell’attività condotta all’interno di un campo relazionale, per cui le regolarità della forma incorporano le regolarità del movimento che la fanno emergere.[91] E, come vedremo, questo lega la questione delle pratiche e della cognizione alla questione dell’incorporazione degli skills.

“Comprendere il know-how tecnico significa focalizzarsi sull’artificio invece che sull’artefatto, sull’uso degli strumenti come pratica esperta piuttosto che sull’operazione meccanica condotta da una serie di componenti meccanici. Ma per artificio non intendo un qualche tipo di conoscenza scientifica e generalmente valida, come potrebbe essere il significato della tecnologia moderna e delle sue applicazioni. Intendo piuttosto la conoscenza di tipo personale, parte intuitiva, largamente implicita, e profondamente imbricata nelle particolarità dell’esperienza. Si cresce in tale conoscenza allo stesso modo in cui si impara a conoscere il proprio paese o il proprio sistema di parentela. Si tratta di un tipo di conoscenza che permette a una persona di navigare efficientemente in un mondo di altri uomini e anche di non umani, e che le fornisca una specifica identità.”[92]

Ne scaturisce che l’evoluzione non ha mai fine, poiché l’ambiente, inteso come campo di forze e di relazioni, continua a modificarsi. Tale crescita è definita da Ingold come “autopoiesi, “cioè l’autotrasformazione nel tempo del sistema di relazioni all’interno delle quali un organismo o un artefatto vengono posti in essere.”[93] Particolarmente calzante appare l’accostamento con l’attività di manifattura dei cesti del mastro artigiano degli Yekuana, una popolazione indigena del Venezuela meridionale, che viene paragonata a un intreccio del mondo. Intreccio che non è presente solo nel cesto, ma in tutto ciò che il mastro compie, e che coinvolge tutto il popolo Yekuana nelle sue attività.[94]

In questo quadro l’attività cognitiva è intesa come un insieme di attività che guidano l’essere-nel-mondo degli individui in base a interessi pratici e in ambienti specifici. Il lungo periodo di apprendimento in base al quale si diviene abili ed esperti si contraddistingue per un agire fluido e flessibile e per l’ampio repertorio di improvvisazione orientato da una intenzionalità.[95]

Il padroneggiamento di una pratica oltre che derivante da “mimesi tra maestro e apprendista”, è di ordine sociale, essendo collegato alla “partecipazione a una comunità (…) nell’interazione con i membri della cultura cui quella pratica appartiene, e in campi di azione comune resi possibili da performance e routine, secondo modalità di improvvisazione situata, che vedono come scenario privilegiato casa, luogo di lavoro e strada.[96]

Questa interazione dà luogo a quella che da Edward Hutchins è stata definita come Cognition in the wild, “la cognizione là fuori” studio contestualizzato della cognizione nei contesti in cui questa ha effettivamente luogo. Da ciò scaturisce il concetto di cognizione socialmente distribuita, che ha proprietà cognitive proprie, e ha luogo sia dentro  sia fuori la mente.

L’embedding tra il livello sociale e individuale passa attraverso il corpo, e riveste nella relazione tra pratiche e cognizione un ruolo importante. Marcel Mauss è stato il primo antropologo a teorizzare la nozione di tecniche del corpo, culturalmente apprese. Già Mauss riteneva che i termini delle tecniche del corpo non risiedessero solo nel polo delle potenzialità biologiche, e degli apprendimenti culturali, e dunque nelle dimensioni biologiche e culturali, ma anche nella mediazione psicologica. Pierre Bourdieu ha in seguito sviluppato una sofisticata nozione di habitus quale matrice di azione e percezione che opera a livello cognitivo come insieme di disposizioni, appresa nel corso dell’educazione e che può a sua volta influire sull’ambiente circostante. Per Bourdieu le norme sociali, incorporate in modo inconscio, si trasformano in schemi di percezione e azione, hexis corporea, che ordinano a loro volta lo spazio. Certo, bisogna tener presente che la nozione di habitus di Bourdieu è strettamente legata alla sua teoria della riproduzione delle strutture di potere, che siano di classe o di genere, e ci si può quindi domandare se sia così facilmente applicabile a un contesto ecologico nel quale vi dovrebbe essere una libertà di azione del soggetto. Oppure, dobbiamo pensare, anche, alla possibilità di una imbricazione tra uso delle tecnologie e predisposizioni cognitive come a una forma di potere sugli schemi di percezione e azione. La possibilità parrebbe essere duplice.

Ciò che però ad ogni modo Bourdieu evidenzia bene è il legame relazionale e causale tra dimensione socio-culturale a livello di regole e rappresentazioni simboliche e soggetto, mediato dalla mente nella sua dimensione inconscia, e tradotto in pratiche e posture del corpo.

Gli skills di Ingold rimandano alle tecniche del corpo maussiane e agli habitus di Bourdieu. L’antropologo confuta la tesi della complementarità corpo, mente, cultura cui l’antropologia cognitiva ha aderito nel suo primo periodo. Egli è infatti contrario sia all’ipotesi biologica di stampo darwinistico secondo la quale l’evoluzione umana sarebbe dovuta alle mutazioni del genotipo e alle susseguenti variazioni fenotipiche, sia a quella psicologista, che della prima costituisce un corollario, e secondo la quale le strutture cognitive mentali predisposte all’apprendimento di tecniche comportamentali sarebbero anch’esse genotipicamente fondate. Per Ingold  non basta la replica di un disegno per consentire la messa in atto di una serie di comportamenti abili. L’antropologo ha un atteggiamento critico anche nei confronti della teoria dell’ereditarietà della trasmissione culturale, in virtù della quale istruzioni genetiche e culturali si trasmetterebbero in parallelo, secondo le teorie di antropologi come Durham (1991) e ancora prima da Kluckhohn (1956). In virtù di questo modello, le possibilità di comportamento degli esseri umani sarebbero insite in loro ancor prima dell’apprendimento, o, meglio ancora, nel “coinvolgimento nei contesti pratici dell’attività.”[97] In alternativa a queste teorie, e sulla base dell’osservazione che ci sono abilità umane come il nuotare, lo stare accovacciati o il portare pesi sulla testa, che a differenza del camminare non sono innate,  Ingold propone quella di “un punto di vista unitario sull’organismo-persona, che passa attraverso processi di crescita e sviluppo in un ambiente, contribuendo con la sua presenza e attività allo sviluppo di altri.”[98] Ne consegue che costruendo le condizioni ambientali per il proprio sviluppo, gli uomini divengono al tempo stesso “produttori e prodotti della propria evoluzione.”[99] Ciò significa che piuttosto che riempire con determinati contenuti variabili degli schemi cognitivi preesistenti, gli esseri umani plasmano nel crescere le proprie connessioni neurologiche in relazione con un determinato ambiente. Questo comporta che non vi può essere uno sviluppo culturale o una ereditarietà della cultura come Geertz affferma. La trasmissione avviene semmai in modo immediato, da parte di tutori che mostrano agli apprendisti le procedure opportune, “rendendo qualcosa presente a quella persona, in modo che essa lo apprenda direttamente, attraverso lo sguardo, l’ascolto o il tatto e fornendo “tale possibilità di esperienza immediata”[100] La tesi di Ingold si accorda con quella della psicologia ecologica secondo la quale l’individuo apprende dall’ambiente non solo mediante mere trasmissioni alla mente di input provenienti dagli organi recettori, ma impegnando nell’ambiente insieme mente e corpo. Al tempo stesso l’apprendimento deriva anche dai peculiari tipi di attività in cui si è impegnati.

Come abbiamo potuto vedere l’antropologia teorizza e analizza la trasmissione culturale mediata dagli artefatti tecnici e tecnologici soprattutto relativamente a questioni quali l’apprendimento/trasmissione, la dimensione corporea e sociale delle pratiche, e l’insieme di relazioni in un dato contesto. Le teorie socio-antropologiche ed epistemologiche prese in rassegna costituiscono una scatola per gli attrezzi per lo studio delle pratiche esperte con artefatti tecnologici, e della loro relazione con la cognizione incorporata e distribuita, nel cercare di capire se l’interazione precoce con gli artefatti tecnologici possa dare luogo a modalità completamente innovative di imbricazione tra persone e ambiente, di azione, percezione, cognizione e relazione, oppure se tale mutazione possa essere estesa a tutte le persone, o almeno a una rappresentativa percentuale, che hanno esperito un processo di apprendimento guidato e una interazione sociale adeguata. Per dirla in termini semplici, i nativi digitali sono stati “creati” dagli artefatti tecnologici, o hanno anche bisogno di un processo di apprendimento guidato da quelle persone che gli artefatti li hanno creati e caricati di istruzioni, oppure da persone che ne hanno appreso l’uso prima di loro, e di una significativa quantità di interazione afferente a una comunità di pratica. L’avere appreso fin dall’infanzia costituisce la via per una nuova modalità di cognizione, di interazione e di azione, o questo apprendimento va integrato con altri fattori?

Quel che appare molto probabile è che l’inserirsi precocemente in una comunità di pratiche possa facilitare una serie di caratteristiche quali il coinvolgimento sociale, la produzione di abilità, la condivisione di un repertorio di risorse comuni (Wenger 1998) , l’incoraggiamento di certi tipi di relazione e di apprendimento.[101] Il vivere si configura quindi come “un lungo processo di apprendistato.”[102] La “plasticità strutturale” di queste modalità della relazione consente diverse storie di condivisione di pratiche che permeano tutta l’ontogenesi individuale: dall’andatura alla comunicazione, alle strategie di gestione dei conflitti. La costruzione dell’identità individuale avviene infatti in un regime di “accoppiamento strutturale sociale”, cioè un modello della relazione definito dall’operare stesso nella relazione sociale.

Grasseni e Ronzon si ispirano a una nutrita serie di studi e teorie prodotti non solamente in campo antropologico ma anche neurofenomenologiche (Varela), epistemologiche (Bateson, Ceruti), biologiche (Maturana, Varela), in virtù delle quali si sottolinea la capacità di produrre un mondo a partire da una specifica perturbazione dell’ambiente (Varela, Shears 1999), della capacità di creare possibilità a partire da un vincolo (Ceruti 1986), dello sviluppo di pattern mentali a partire da tentativi di prova ed errore, che conducono a momentanei riordinamenti del lavoro cognitivo dell’attore sociale (Bateson), dell’accoppiamento strutturale con il mondo  che costituisce una seria di regolarità e la tradizione sociologica e culturale di un gruppo (Maturana e Varela 1984). Questi li spingono ad affermare che “vivere è di per se stesso conoscere, poiché per esistere occorre conservare l’accoppiamento strutturale come essere vivente con un ambiente. Ogni tipo di sapere in questo senso è un’azione.”[103]

Allo stesso modo, ci si può porre lo stesso ordine di ipotesi per quanto attiene l’interazione tra ambiente e cultura. Per Ingold l’ambiente si modifica in continuazione. “L’aspetto fondamentale della vita è che non comincia qui e che finisce lì, ma che continua sempre. Per la stessa ragione, un ambiente non è mai dato ma è sempre in costruzione.”[104]  L’ambiente umano sarebbe dunque continuamente soggetto a modifiche, e con esso si modificherebbe anche il modo di essere umani e di abitare un determinato ambiente. Il campo pare rimanere aperto alle ipotesi, tra inculturazione e interazione precoce con oggetti e persone, e inesaurita capacità degli esseri umani di apprendere e riformularsi nel corso della loro storia biografica.

I nativi digitali nella digital ethnography

Andiamo ora ad esaminare un campo meno generalmente teorico, e più specificamente legato ai media, in parte andandone a prendere in considerazione alcune prospettive teoriche, in parte focalizzandoci su alcune, non molto numerose, etnografie legate all’uso di Internet e delle tecnologie digitali da parte dei giovani. Al tempo stesso in questa parte cercheremo di collegare le descrizioni etnografiche alle prospettive teoriche esaminate in precedenza, in particolare per quanto attiene alla prospettiva ecologica, al rapporto tra cognizioni e pratiche, all’acquisizione di skills mediante apprendistato, alla comunicazione che passa in seno alle comunità di pratiche (che in questo caso possono anche configurarsi come rapporti di collaborazione peers-to-peers) e, fattore di grande importanza, alla identità culturale e collettiva che va ad intersecarsi con le acquisizioni cognitive. Esamineremo inoltre come la comunicazione digitale possa ingenerare forme di agency, e come questa passi per un articolato insieme di pratiche, prendendo in considerazione una ulteriore nozione di tecnologie, le tecnologie sociali e culturali, che insieme alle tecnologie digitali concorrono a formare modalità di pratiche e di acquisizioni cognitive.

Due prospettive teoriche di ordine generale relative ai media possono esserci utili come introduzione a una visione antropologica delle modificazioni identitarie indotte dai media digitali. Una è data dall’ipotesi filosofico-storica di Benedict Anderson sulle “comunità immaginate” nazionali, rese possibili e concretizzate dalla creazione dei media a stampa, romanzi e giornali, e poi dei mezzi di comunicazione di massa, e nelle quali benché non ci si conosca personalmente si vive il proprio essere comunità in termini di “profondo, orizzontale cameratismo”[105] a dispetto delle diseguaglianze, e tramite una “esplosiva interazione tra capitalismo, tecnologia e diversità linguistica umana”,[106] dove il cambiamento è determinato dall’interazione della tecnologia con un ambiente socio-culturale. Le comunità di lettori e fruitori condividono codici e linguaggi, credenze, opinioni e conoscenze.

Sulla creazione e circolazione di identità attraverso i media, mediante un fenomeno legato alla circolazione globale di persone e rappresentazioni mediatiche, che danno luogo all’immaginazione quale tratto costitutivo della soggettività moderna, si è soffermato in seguito l’antropologo Arjun Appadurai, che ha formulato la definizione di technoscapes e mediascapes, panorami tecnologici e mediatici. Nella “modernità in polvere” di Appadurai, costituita da flussi globalizzati e imprevedibili di persone e rappresentazioni, ci troviamo a vivere in mondi globali immaginati e deterritorializzati, che consentono flussi complessi e multidirezionali, differentemente rispetto alla dipendenza dai media tradizionali. Questi panorami possono condurre a loro volta alla formazione di ideoscapes, panorami di idee, e a forme di agency, in virtù della potenza modificatrice dell’immaginazione.

In seguito, parallelamente allo sviluppo delle nuove tecnologie digitali e di nuove pratiche e forme di comunicazione, gli antropologi sono andati in differenti direzioni, invitando alla cautela relativamente alla globalità, radicalità e repentinità dei mutamenti cognitivi e sociali innescati dalle tecnologie digitali, ma al tempo stesso evidenziando i possibili effetti positivi dell’uso dei nuovi media, in combinazione con ambienti sociali, pratiche comunicative e inculturative, fattori sociali e culturali.

All’entusiasmo nei confronti delle nuove tecnologie mostrato da studiosi come Castells, Hayles, Negroponte e Turkle, e in una seconda ondata susseguita all’avvento del Web 2.0 (Shirky 2008, Winberger 2007) gli antropologi mantengono un’attitudine più cauta, analitica e articolata, prendendo in considerazione non solo i fattori cognitivi ma anche appunto il loro intersecarsi con quelli sociali e culturali ai fini del cambiamento sociale.

L’antropologia di fronte ai media digitali assume la posizione che le è propria, vale a dire quella di investigare identità e pratiche locali e circoscritte o di gruppo, e soprattutto di ricordare che la modernità o contemporaneità occidentale non è necessariamente un fenomeno di portata globale. Gabriella Coleman (2010), nel compiere una disamina generale sui lavori dell’ultimo ventennio, sostiene la necessità di investigare etnograficamente le realtà dei digital media, facendo rimarcare come per un certo periodo gli studi teorici e metodologici abbiano sopravanzato quelli sul campo.

In qualsiasi contesto e circostanza individui e gruppi facciano uso e comunichino con i media digitali, vi saranno circolazioni, nuovi modi di immaginare, amplificazioni, cancellazioni, traslazioni, revisioni, e riplasmazioni di tutta una serie di rappresentazioni, esperienze e identità culturali, ma il modo preciso in cui queste dinamiche si dispiegano non può essere previsto in anticipo. (…) Gli artefatti digitali hanno supportato la nascita di nuove comunità: ragazze da webcam, giocatori, hackers, e altri ancora, nei quali senso del sé, vocazione e socialità di gruppo sono plasmati in modo significativo, anche se non esclusivamente né deterministicamente, dalle tecnologie digitali. La diversità e la pervasività dei media digitali li può rendere difficili da studiare, ma anche fare di essi dei convincenti oggetti di ricerca etnografica.[107]

Una delle premesse antropologiche è di sgomberare il campo da facili universalismi relativi a trasformazioni su scala planetaria causate dai media digitali, per focalizzarsi piuttosto sull’articolazione tra locale e globale, in un’ottica di critica postcoloniale.

“Il presupposto che le tecnologie digitali costituiscono le basi di una trasformazione su scala planetaria è ampiamente diffusa, ma infondata. Mi assumo il compito di essere tra coloro che “provincializzano” i media digitali (per prendere a prestito una frase formulata dalla teorica del postcolonialismo Dipesh Chakrabarty). Provincializzare i media digitali non significa negare la loro dimensione e portata  globale (…). Piuttosto, questo ci consente di considerare il modo in cui questi media sono diventati centrali nell’articolazione di credenze fondamentali, pratiche rituali, e modi di essere nel mondo; il fatto che i media digitali abbiano un preminente ruolo culturale e innegabile ma mostrare come, dove, e perché lo abbiano è necessario per contrastare le ipotesi restrittive relative all’universalità dell’esperienza digitale.”[108]

Studiosi come Ginsburg (2008) hanno fatto notare come da una parte vi sia una narrazione sulla “inevitabilità evolutiva dell’era digitale”, e da un’altra la narrazione dei media digitali, ricreando una retorica della modernizzazione attraverso l’impiego del termine Digital Divide, abbia provveduto a posizionare gruppi come le comunità indigene in contesti allocronici, tempi non contemporanei a quelli occidentali. Le comunità indigene che hanno accesso ai media digitali, peraltro, non li usano per produrre nuovi significati ma li piegano piuttosto ai fini di un “tradizionalismo strategico”, che ha a che vedere con il rafforzamento della relazione con territorio, lingua e memoria, trovando così nuove forme di agency, come d’altra parte era già stato avanzato da Appadurai.  Tra gli universalismi confutati da Coleman vi è anche quello relativo al termine di “nativi”, usato per “denotare i profondi e fondamentali mutamenti culturali conseguiti all’uso dei media digitali.

“L’uso dei media digitali è, senza dubbio alcuno, culturalmente e politicamente significativo. Ma anche se mettiamo temporaneamente da parte questioni come quella dell’accesso e della capacità, non vi sono abbastanza elementi a favore del fatto che i media digitali siano i soli o anche i più importanti mezzi per ingenerare una soggettività condivisa o una nuova modalità di esperienza sensoriale, e ancor meno un mondo della vita che possa caratterizzare una vasta popolazione quale un’intera generazione di giovani del Nord America, significato che la parola “nativi” enfatizza.”[109]

Ciononostante Coleman ammette che i media digitali abbiano consentito nuove forme di comunicazione, soggettività, riorganizzazione della percezione sociale, interessi collettivi, consapevolezza e progetti di vita, e che, come asserisce Ingold, i gruppi sociali possano abitare culturalmente un ambiente digitale tecnlogico. E’ però importante che lo studio della gioventù digitale, la digital youth (termine significativamente differente da digital natives), ha riguardato soprattutto giovani Americani, Brasiliani e Giapponesi, venga de-occidentalizzato. Le etnografie compiute in merito indicano tuttavia interessanti direzioni di investigazione, sempre attinenti alle direzioni indicate in precedenza, relative quindi alla relazionalità e alle pratiche: i mutamenti nelle dinamiche dell’amicizia, le riconfigurazioni tra sfera pubblica e privata, gli ambiti dell’intimità e della sessualità, e il ruolo del gioco. Campi che potrebbero anche essere soggetti a investigazione interdisciplinare. I media digitali danno luogo anche a cultural locations (Gupta, Ferguson 1997) che giocano un ruolo nella percezione del sé, della memoria, dello spazio e dell’ambiente costruito.

Viene messa inoltre in evidenza la necessità di cogliere all’interno di ampie analisi le linee di classe e di genere.[110] Anche Neil Selwyn[111] si allinea su tale posizione, focalizzandosi più sulle differenze di classe e di genere che su quelle culturali, e sulle pratiche legate all’uso di Internet e all’apprendimento nell’uso dei digital devices. Secondo Selwyn le asserzioni relative ai digital natives vanno supportate da evidenze empiriche.

“Forse è più utile vedere l’uso delle tecnologie da parte dei giovani come continuamente sottoposto a una serie di interazioni e negoziazioni complesse con i contesti sociali, economici, politici e culturali nei quali essi si trovano.” [112]

Non sempre l’uso delle tecnologie digitali è una libera scelta, piuttosto una costrizione dipendente dal contesto spaziale, storico e sociale, oppure può essere visto come unica via di fuga e agency rispetto a una serie di costrizioni. Danah Boyd fa ad esempio notare come in buona parte della provincia americana la mobilità dei ragazzi sia limitata dalla mancanza di trasporti. A questo si aggiungono le restrizioni imposte dagli adulti, che preferiscono che i loro figli non escano e non frequentino posti dove si beve alcool. Boyd ricorda anche come la categoria dei teenagers sia stata storicamente costruita, almeno negli Stati Uniti, tra gli anni Venti e Trenta, in particolare in concomitanza con la Grande Depressione. In questa congiuntura storico-economica i ragazzi, che in precedenza erano considerati adatti a entrare a far parte della forza lavoro, e quindi nell’adultità, a quattordici anni, sarebbero stati indirizzati verso la frequenza scolastica, e quindi strutturalmente separati dal mondo degli adulti. Un ulteriore impulso a questa divisione sarebbe stato dato dalle strategie di mercato che avrebbero iniziato a configurare un mondo di consumo a parte per gli adolescenti a partire dalla Seconda Guerra mondiale. Questi, che trovavano nello spazio di consumo dei malls un luogo di aggregazione sociale, ne sarebbero stati progressivamente allontanati in seguito a contraddittorie logiche di glorificazione della loro fascia d’età (in quanto soggetti separati dagli adulti) e demonizzazione (in quanto soggetti pericolosi passibili di comportamenti antisociali, violenti, di abuso di alcool, di furto etc. ). In una siffatta situazione, costruita in base a una serie di dinamiche socio-economiche, i teenagers avrebbero trovato in rete un possibile spazio di agency non sorvegliato e determinato dagli adulti. In questo senso l’uso delle tecnologie digitali appare non, o non solo, come conseguenza di frames cognitivi incorporati fin dalla nascita, ma come conseguenza di una complessa serie di fattori spaziali e sociali, in interazione e dissimmetria di potere con il mondo degli adulti.

Selwyn cita dati in base ai quali si può constatare come l’uso delle tecnologie digitali risulti meno diffuso tra la gioventù rurale, le donne e i figli di famiglie con un basso livello di istruzione. Lo studioso avanza inoltre dei dubbi sullo stretto legame tra gioventù digitale e conoscenza, in base a dati che attestano che l’uso delle ultime tecnologie possa essere diretto anche in forma massiccia alla scrittura di messaggi, al gioco e a scaricare contenuti on line, e che spesso la modalità di fruizione sia solitaria e non avvenga in gruppo. Le informazioni ricercate in rete dai giovani sarebbero inoltre ancora in maggioranza legate a contenuti “leggeri” quali sport, humor o intrattenimento, ma molto meno a contenuti più densi, continuando per questi ad affidarsi a fonti più tradizionali come i pari, la famiglia e i mass-media tradizionali. Selwyn sostiene allora che il ruolo di insegnamento dell’uso delle tecnologie digitali ai ragazzi, sia allo scopo di trarne informazioni rilevanti, sia di creare contenuti, debba passare per gli adulti, validando così un modello di apprendistato tradizionale.

Altri studi di tipo ampio e di carattere interdisciplinare compiuti su rappresentazioni e pratiche nei digital media confermano questa ipotesi di collaborazione tra teenagers e adulti, partendo dal presupposto che sia controproducente stabilire a priori dei confini tra gruppi di età o intergenerazionali, poiché le forme di partecipazione on line vedono in campo relazioni intergenerazionali (Buckingham 2008). All’interno di un simile contesto, viene riconosciuta la potenziale importanza che i digital media possono avere per i giovani. Ciò che appare importante evitare è però l’esoticizzazione dei giovani, visti dagli adulti che parlano in loro nome, acquisendo una prospettiva emica, l’unica a potere  veramente dar conto di quali siano le reali conseguenze del digital turn per i ragazzi. In questo senso le etnografie compiute in merito hanno prodotto dei risultati molto interessanti, che si riallacciano alle teorie esposte prima e alle analisi sull’uso delle tecnologie, sull’acquisizione degli skills e sulle comunità di pratiche, in una prospettiva ecologica.

Alcuni studi si richiamano esplicitamente in questo senso al social turn  che vede porre l’accento relativamente all’apprendimento non tanto alle modificazioni cognitive individuali, ma nella partecipazione sociale e nell’identità culturale, nella cognizione situata e distribuita, e nell’apprendimento situato.[113]  Le attività sui media vengono inoltre collegate al contesto sociale e culturale, riferendosi ai concetti di habitus di Bourdieu o di strutturazione di Giddens relativo al rapporto tra struttura sociale e azione individuale,[114] ma anche ai processi interpretativi. Viene posto inoltre l’accento sui differenti “generi di partecipazione” che orientano in modo differente l’apprendimento, in base all’orientamento verso i pari o verso gli interessi. In tal senso non risulta significativo solo l’apprendistato intergenerazionale, ma anche l’apprendimento peers to peers.

Danah Boyd ha compiuto due anni di ricerche etnografiche su ragazzi utenti di MySpace di una fascia di età corrispondente a quella delle scuole superiori, e di diverse appartenenze geografiche e socio-economiche, mediante osservazione partecipante, interviste in profondità, incontri off-line, osservazione dei siti e dei profili. Sono considerati tra gli informatori privilegiati anche i ragazzi ostili alla partecipazione al social network per vari motivi, che vanno dall’obiezione cosciente al gruppo Murdoch proprietario di My Space, al fatto di ritenere la partecipazione troppo poco “cool” per loro, ma che hanno una precisa opinione sui social network e possono contribuire a fare un quadro delle posizioni dei teenagers sulla dimensione online.

Per Boyd i social network presentano delle peculiarità che li distinguono rispetto all’interazione vis-à-vis, che sono quelli della persistenza, ricercabilità, replicabilità e dei pubblici invisibili. La presenza in rete si attua mediante una persistenza degli atti linguistici, che danno luogo a una identità stabilita mediante il testo, e mediante la presenza di un corpo digitale online, rintracciabile mediante parole chiave.

Possiamo considerare l’agire degli utenti di MySpace – e per analogia di altri social networks – in modo enattivo, cioè, in una prospettiva ecologica e di coscienza incorporata, relativamente al modo in cui una coscienza è presente nel mondo attraverso la sua agency e l’interazione con l’ambiente circostante, con una peculiare Umwelt costituita, anche, da questo persistente spazio di presenza e interazione in rete. Cambia il modo di percepire gli interlocutori e di essere percepiti. Mentre nella modalità non mediata il soggetto usa il corpo per fornire informazioni su se stesso attraverso le posture, l’abbigliamento, la mimica facciale e il discorso, adeguando la sua presentazione performativa in relazione ai feedback che riceve in merito all’informazione percepita. Non cambia quindi solo la predisposizione della mente verso il mondo, ma cambia al tempo stesso l’identità dei soggetti nei confronti degli interlocutori, in una interazione reciproca. Identità intesa anche come coscienza presente permanentemente in rete ed esposta all’interazione con altri, spesso sconosciuti, in una esposizione del proprio vissuto privato, costituito in forma di conversazione. Si tratta di pratiche altamente suscettibili di costituire una nuova forma di esposizione al mondo e di apprensione dell’ambiente e degli altri.

Le pratiche (di presentazione del Sé e interazione) cambiano le cognizioni (dell’altro, dell’interazione e della presentazione di sé). Gli skills per interpretare e gestire le informazioni sono differenti. Ciò richiama in campo la questione dell’auto-riflessività su cui ha ragionato Giddens, quale coscienza del Sé, portare in superficie ciò che è implicito.

E’ vero però d’altro canto, fa notare Boyd, che le etichette dei social network possono anche rinforzare norme sociali presenti nello spazio fisico, e che quindi i risultati delle interazioni in direzioni di nuove o più consolidate identità dipendono sempre dall’uso che se ne fa, come abbiamo visto prima a proposito della rappresentazione delle identità tradizionali. La vita online si gioca batesonianamente tra una riproduzione e una modificazione delle cornici che strutturano il gioco sociale, oltre che sulla modificazione di alcune strutture cognitive soggiacenti.

Ciò che è certo è che l’esposizione ad un pubblico potenzialmente molto più vasto che quello delle interazioni non-mediate può cambiare molte regole dell’interazione e il tipo di realtà che viene esperito.

L’interazione intergenerazionale mediata dalle tecnologie digitali può riguardare in una prospettiva ecologica pratiche che hanno una influenza sulla comunità e quindi una effettiva capacità da parte dei giovani di utilizzare in modo efficace i digital media. Il loro utilizzo non va mai considerato in modo a se stante, ma in una prospettiva ecologica in relazione a tecnologie culturali e sociali, intendendo con tecnologie un corpo di conoscenze appropriato allo sviluppo di determinati skills.[115] Le tecnologie culturali  sono definite come strumenti formali che utilizzano processi comunicativi in contesti specifici, dando luogo a prodotti che sono simili nella forma ma non nel contenuto. Al di là delle potenzialità dei media, è il contesto sociale che ne determina applicazioni e impatto sull’apprendimento e sull’identità, laddove il potenziale per l’apprendimento è in buona parte fornito dalla partecipazione. L’accento è quindi messo sulla comunità di pratiche.

A questo punto non è solo l’esposizione precoce alle tecnologie digitali, ma tutta una serie di fattori complessi a determinare delle modificazioni importanti che non hanno delle ricadute solo sulle strutture cognitive ma anche su dinamiche e caratteristiche psichiche e socio-culturali, sulla percezione e presentazione del Sé, sull’incontro con l’altro e lo spazio dialogico, sul confine tra pubblico e privato.

Aldilà di ciò che i dispositivi digitali consentono, sono i contesti culturali e sociali a definire ulteriormente e più esattamente l’uso delle tecnologie digitali. Ed è la combinazione di tecnologie digitali, sociali e culturali a consentire e definire l’apprendimento da parte dei giovani, quale processo a cui essi partecipano attivamente. Ciò vuol dire che non basta il semplice accesso alle tecnologie digitali a definire nuove possibilità cognitive da parte dei giovani, ma è necessario un complesso processo riflessivo che vede una interazione con gli adulti, un nuovo modo di collaborare con i pari e una attenta considerazione del pubblico di riferimento. Il rapporto tra giovani e tecnologie va quindi considerato un embodiment di relazioni sociali e culturali.[116]

All’interno di questa definizione si può meglio comprendere meglio quell’aspetto della relazione dei giovani con le tecnologie digitali mediato dall’apprendistato, consistente nella collaborazione intergenerazionale tra giovani e adulti, i quali insegnano ai giovani come usare i media digitali ai fini della cittadinanza attiva e per acquisire agency. Goldman, Booker e Mc Dermott, riflettendo sul caso di un esperimento di apprendimento attivo da parte di un gruppo di ragazzi dell’uso delle tecnologie digitali, finalizzato alla produzione di due video, uno sullo squilibrio di potere e sulla discriminazione da parte degli adulti verso i giovani (adultism), l’altro sui problemi scolastici potenzialmente portatori di un ritiro dalla scuola. Le esperienze di questo tipo da parte dei giovani, in collaborazione con i loro pari e gli adulti, non hanno solo carattere cognitivo, ma li formano e li informano sulle relazioni di potere, portandoli a sviluppare un’alfabetizzazione critica attraverso una cornice di apprendimento (critical literacy framework). Si tratta di una pedagogia che insegna molteplici alfabetizzazioni, ricerca continua, e riflessione che consente una interpretazione, riflessione e riscrittura di ciò che viene appreso, negli intenti di Paulo Freire e Donaldo Macedo, ponendosi come alternativa alle narrazioni dominanti. L’apprendimento è inoltre visto come un processo che avviene in modo graduale e non immediato, mediante gli opportuni tempi di riflessione critica. In un altro caso il SAB, lo Student Advisory Board, di un distretto urbano scolastico del Nord California, partecipa alle politiche locali utilizzando tecnologie culturali e digitali in modo combinato per interagire con le istituzioni e tra loro, mescolando modalità formali e informali, in particolare per ovviare alla mancanza di compresenza fisica, raggiungendo un elevato numero di studenti, riuscendo a sviluppare una identità collettiva e trovando un modo per utilizzare creativamente le tecnologie culturali mediante l’impiego di quelle digitali.

I media digitali come i film, gli smartphone e le attività su Internet mediano il dialogo e gli spazi di partecipazione con e per la gioventù, le tecnologie culturali formano una struttura di pensiero. Di conseguenza, in questi ambienti di apprendimento, si possono creare autentiche opportunità di partecipazione mediante l’appropriazione condivisa di differenti tecnologie.

Questo discorso ci porta a tornare agli scenari formulati da Appadurai, e a congetturare che i social network come mediascapes consentano la creazione di identità immaginate e complesse, ma anche di ibridazioni identitarie. I gruppi di interesse consentono di avere relazioni al di fuori del ristretto ambito locale[117] e spesso sono intersecati con gruppi di amicizia. Dobbiamo quindi prendere in considerazione la concorrenza di numerosi fattori nella creazione di nuove identità relative ai media digitali. Pensiamo tra le altre cose al fatto che i ragazzi possono creare su Internet profili multipli sui quali mostrare differenti parti della loro identità. Oltre a eventuali modificazioni cognitive abbiamo già preso in esame l’esistenza di una prospettiva ecologica e di un legame tra pratiche e cognizione, e la questione della trasmissione prevalentemente intergenerazionale degli skills. Abbiamo inoltre visto come sia importante prendere in considerazione il contesto sociale e culturale locale. Infine volgiamo il nostro sguardo su una Umwelt at large, in polvere, su scala globale, che prende rotte impreviste, e sul modo in cui l’intrecciarsi delle relazioni possa dar luogo a identità arricchite e ibride. E torniamo qui a una delle questioni classiche dell’antropologia, quella del contatto tra le società e culture, chiedendoci a quali nuovi tipi e modalità di ibridazione culturale e di pratiche ad essa correlate conducano le pratiche e la comunicazione svolte attraverso i media digitali, e se eventualmente il tutto non vada esaminato alla luce di una prospettiva non meramente psicologico-cognitiva o psico-neurologica, né in senso meramente massmediologico universale, ma in una prospettiva etnopsicologica, prendendo in considerazione il modo in cui la cultura interagisce sulla psiche degli individui, plasmandola in modi ancora una volta imprevedibili e inediti.

 

[1] L’idea di questo lavoro nasce dall’interesse in me suscitato dal corso di Pedagogia e Culture dell’Educazione, svolto all’interno della magistrale di Scienze antropologiche ed etnologiche. Questo corso mi ha infatti permesso di iniziare ad approfondire la tematica dei Nativi Digitali; tematica che, essendo genitore di una bambina che in quel periodo era all’ultimo anno di scuola dell’infanzia e che ora inizia la seconda elementare, per evidenti motivi aveva già precedentemente stimolato la mia curiosità.

[2] R. Malighetti, Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una comunità di discendenti di schiavi, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004, pag. 183

[3] Centro Europeo per la Ricerca Nucleare

[4] M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon, NCB University Press, vol. 9, n. 5, 2001

[5] S. Mantovani e P. Ferri, Digital Kids, Etas, Milano, 2008 e S. Mantovani e P. Ferri, Bambini e computer, Etas, Milano, 2006

[6] M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon, NCB University Press, vol. 9, n. 5, 2001

[7] G. Longo, Uomo e tecnologia: una simbiosi problematica, Mondo Digitale, n 2, Giugno 2005

[8] M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon, NCB University Press, vol. 9, n. 5, 2001

[9] http://www.pewinternet. org/Reports/2002/The-Digital-Disconnect-The-widening-gap-between-In- ternetsavvy-students-and-their-schools.aspx

[10] Organization for Economic Cooperation and Development

[11] Mantovani e P. Ferri, Bambini e computer, Etas, Milano, 2006, p.18

[12] H.Gardner e K.Davies, Generazione APP, la testa dei giovani e il nuovo mondo digitale, Feltrinelli, Milano, 2014

[13] H.Gardner e K.Davies, ivi, pag. 45

[14] H.Gardner e K.Davies, ivi, p. 18/19

[15] H.Gardner e K.Davies, ibidem

[16]Usiamo l’espressione “nativi digitali” consapevoli che tale concetto sia oggetto di un ampio e acceso dibattito nella letteratura scientifica. Infatti, rimarcare troppo il divario fra nativi e immigranti rischia di farci perdere di vista le differenze di possibilità di accesso agli strumenti digitali e di competenze tra i diversi soggetti appartenenti alle categorie. Rischio messo in rilievo dallo stesso Henry Jenkins.

[17] P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, Milano, 2011, pag. 7

[18] P. Ferri, ivi

[19] P. Ferri, ivi

[20] F. Pedrò, The new millennium learner a project in progress, 2008 e Becta, Harnessing Technology: Schools Survey, Paula Smith, Peter Rudd and Misia Coghlan, 2008 e Becta, Web 2.0 technologies for learning: The current landscape – opportunities, challenges and tensions, 2008

[21] P. Ferri, I nativi digitali, una razza in via di evoluzione, Cronache editoriali

[22] S. Mantovani e P. Ferri, Digital Kids, Etas, Milano, 2008

[23] H. Jenkins, Culture participative e competenze digitali, Guerini, Milano, 2010

[24] H. Jenkins, ivi, pag. 30

[25] H. Jenkins, ivi, pag. 28

[26] H. Jenkins, ivi, pag. 31

[27] P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, Milano, 2011, pag. 2

[28] R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994, in Rivoltella, Neurodidattica,  Cortina, Milano,2012, pag. 2

[29] Prensky, http://www.uh.cu/static/documents/TD/H.%20Sapiens%20Digital.Pdf, 2009

[30] http://www.netgenskeptic.com/

[31] M. Bullen, http:// www.cjlt.ca/index.php/cjlt/article/view/550/298, 2011.

[32]S. Bennett, K. Maton, L. Kervin, The digital nativesdebate: A critical review of the evidence, British Journal of Educational Technology, Settembre 2008

[33] http://www.gian- nimarconato.it/2011/03/nativo-digitale-uno-stereotipo-dannoso/

[34] http://www.mendeley.com/ research/the-digital-native-myth-and-reality

[35] A. M. Battro e P. J. Denham, Verso un’intelligenza digitale, Ledizioni, Milano, 2010

[36] M. Spitzer, Demenza digitale, come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano, 2013

[37] M. Spitzer, ivi

[38] R.Kurzweil, The singularity is near, Viking Press, 2005

[39] A. R. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi edizioni, Milano 1995

[40] P. C. Rivoltella, Neurodidattica: insegnare al cervello che apprende, Cortina, Milano, 2012

[41] P. C. Rivoltella, ivi, pag. 38

[42] D. J. Linden, La mente casuale, Centro scientifico editore, Torino, 2009, pag. 65

[43] D. J. Linden, ivi, pag. 66

[44] D. J. Linden, ivi, pag. 57

[45] M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon, NCB University Press, vol. 9, n. 5, 2001

[46] P. C. Rivoltella, ivi, pag. 112

[47] J. P. Gee James Paul, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale, Cortina, Milano, 2013, pag. 22

[48] L. Mecacci (a cura di), Manuale di psicologia generale, Giunti, Firenze, 2011

[49] A. M. Battro e P. J. Denham, Verso un’intelligenza digitale, Ledizioni, Milano, 2010

[50] N. Negroponte in A. M. Battro e P. J. Denham, Verso un’intelligenza digitale, pag. 13

[51] H. Gardner, Gardner Howard. Formae mentis. Saggio sulla pluralità delle intelligenze, Feltrinelli, Milano, 1987

[52] H. Gardner, ivi, pp. 37/38

[53] A. M. Battro e P. J. Denham, ivi, pag. 22

[54] A. M. Battro e P. J. Denham, ivi, p. 34/35

[55] A. M. Battro e P. J. Denham, ivi, pag. 25

[56] A proposito di scelte-clic messe in atto da scimmie, topi, delfini, colombe, pappagalli si veda: Pepperberg, 2000

[57] A. M. Battro e P. J. Denham, ivi, pag. 33

[58] A. M. Battro e P. J. Denham, ivi, pag. 20

[59] H. Gardner in A. M. Battro e P. J. Denham, Verso un’intelligenza digitale, pag. 39

[60] P. C. Rivoltella, ivi, pag. 138

[61] A. M. Battro e P. J. Denham, ivi, pag. 13

[62] G. O. Longo, Uomo e tecnologia: una simbiosi problematica, Mondo digitale, n. 2, 2005, pag. 6

[63] G. O. Longo, ivi, pag.

[64] G. O. Longo, ivi, pag. 8

[65] G. O. Longo, ivi, pag. 7

[66]G. O. Longo, ivi, pag. 8

[67] C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 41

[68] http://www.etnografiadigitale.it/, con il termine netnography si intende  un recente metodo di ricerca qualitativa che si svolge on line mentre la digital ethnography riguarda la ricerca sulle pratiche e identità in rete che si può svolgere sia on line sia offline. A volte tuttavia il termine digital etnography designa sia il metodo sia gli oggetti della ricerca.

[69] C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 62/63

[70] C. Geertz, ivi, p. 55

[71] C. Geertz, ivi, pag. 75

[72] C. Geertz, ivi, pag. 86

[73] W. Goodenoug, Componential Analysis and the Study of Meaning.Language, 1956 e Lounsbury, Floyd, A Semantic Analysis of Pawnee Kinship Usage. Language, 1956

[74] C. Grasseni e F. Ronzon, Pratiche e cognizione, Meltemi, Roma, 2004

[75] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000, pag.340

[76] G. Bateson, Una teoria del gioco e della fantasia, Adelphi, Milano, 1976

[77] G. Bateson, 2000

[78] S. Demozzi, Una danza di parti interagenti. Bateson, pensiero ecologico ed evoluzione, Tesi di Dottorato di Ricerca in Pedagogia, ciclo XXI, Università di Bologna, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, 2009

[79] J. Deely, Umwelt, “Semiotica” 134, n. 1-4, 2001, pp. 125 – 135.

[80] T. Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi, Roma, 2001

[81] T. Ingold, ivi, pag. 144

[82] T. Ingold, ivi, pag. 145

[83] T. Ingold, ivi, p. 150/151

[84] C. Grasseni e F. Ronzon, Pratiche e cognizione, Meltemi, Roma, 2004, pag. 134

[85] Latour, 1994, cit. in C. Grasseni e F. Ronzon, Pratiche e cognizione, Meltemi, Roma, 2004, pag. 132

[86] C. Grasseni e F. Ronzon, ivi, pag. 156

[87] T. Ingold, ivi, pag. 143

[88] T. Ingold, ivi, pag. 150

[89] T. Ingold, ivi, pag. 175

[90] Tale visione appare decisamente più ottimista di quella batesoniana, più articolata e problematica, e nella quale l’equilibrio con l’ambiente dipende dal tipo di feedback innescato, e può essere spezzato dal modo in cui gli uomini  stabiliscono un’intenzionalità finalistica e razionalistica nei confronti della natura.

[91] T. Ingold, ivi, pag. 205

[92] T. Ingold, ivi, pag. 181

[93] T. Ingold, ivi, pag. 205

[94] T. Ingold, ivi, pag. 209

[95] C. Grasseni e F. Ronzon, ivi, p. 70/74

[96] C. Grasseni e F. Ronzon, ivi, p. 145/155

[97] T. Ingold, ivi, pag. 59

[98] ibidem

[99] T. Ingold, ivi, pag. 63

[100] T. Ingold, ivi, pag. 69

[101] C. Grasseni e F. Ronzon, ivi, pag. 191

[102] C. Grasseni e F. Ronzon, ivi, pag. 211

[103] C. Grasseni e F. Ronzon, ivi, pag. 24

[104] T. Ingold, ivi, pag. 211

[105] B. Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 2000, pag. 26

[106] B. Anderson, ivi, pag. 60

[107] E. G. Coleman, Ethnographic approaches to digital media, Annual Review of Anthropology, vol. 39, 2010, pag. 488

[108] E. G. Coleman, ivi, pag. 489

[109] E. G. Coleman, ivi, pag. 490

[110] M. Ito et alii, Hanging out, messing out and geeking out. Kids living and learning with new media, The John D. and Catherine T. Mc Arthur Foundation series on digital media and learning, 2010

[111] N. Selwyn, The digital native. Myth and reality, Aslib Proceedings. New information perspectives, vol. 51 n. 4, 2009,

[112] N. Selwyn, ivi, pag. 371

[113] M. Ito et alii, ivi, pag. 13

[114] M. Ito et alii, ivi, pag. 15

[115] M. Ito et alii, ivi, pag. 14

[116] M. Ito et alii, ivi, pag. 4

[117] M.Ito et alii, ivi, pag.16