Il dibattito italiano sui nativi digitali

Paolo Ferri insegna Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie didattiche presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, dove dirige il Lisp (Laboratorio informatico di Sperimentazione Pedagogica) e l’Osservatorio Nuovi Media NuMediaBios. Per Bruno Mondadori ha pubblicato La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione (2008); Nativi digitali (2011).

Anche da noi attorno alle tesi di Prensky è nata una discussione vivace. Da una parte vi è l’entusiasmo degli innovatori, per i quali i cambiamenti sono urgenti e improcrastinabili; dall’altra vi sono le riserve di chi vede nella rivoluzione digitale una “bolla educativa” destinata a sgonfiarsi.

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La nozione di digital native, coniata nel 2001 da Mark Prensky, ha suscitato negli Stati Uniti un vivace dibattito. In Italia Paolo Ferri, docente all’Università degli Studi Milano Bicocca, sulla scia di Prensky, si è fatto paladino della nozione di “nativo digitale”: non si è limitato a presentarla e discuterla. Il suo Nativi digitali, infatti, costituisce oggi la più impegnata, organica e meditata presentazione e riproposizione del manifesto di Prensky. Di recente, Roberto Casati, direttore del CNRS all’Institut Nicod di Parigi, ha pubblicato Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere che critica severamente le tesi di Ferri. Presenterò, in estrema sintesi, le due posizioni in campo e, nella terza parte, cercherò di riflettere su cosa c’è in gioco.

A favore dei nativi
Il libro Nativi digitali è lo sviluppo fondativo di ciò che Paolo Ferri ha svolto in libri precedenti, come ad esempio: La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione (2008) e, scritto con altri,Digital learning. La dieta mediale degli universitari italiani (2010). InNativi digitali, egli riprende esplicitamente da Prensky la nozione di “nativo digitale”. Adattando il discorso al caso italiano, Ferri individua nel 1996 l’anno di svolta, quello in cui sarebbe avvenuto il cambio radicale che avrebbe dato vita alla generazione digitale.
Ferri giustifica questa scelta per il fatto che a quell’epoca cominciò la navigazione Internet via browser (Netscape Navigator e Internet Explorer). A suo avviso il modo di essere on-line dei nativi digitali può essere così riassunto: «Gioco, simulazione, performance, appropriazione, multitasking, conoscenza distribuita, intelligenza collettiva, giudizio critico, navigazione transmediale, networking, negoziazione: sono queste le caratteristiche specifiche delle nuove forme di appropriazione comunicativa dei media digitali che vengono sviluppate dai bambini e dai preadolescenti (ma anche dai teenager) del nuovo millennio» (p. 56).
Per ridurre il digital divide intergenerazionale bisognerebbe, secondo l’autore, come primo passo prendere atto della nuova cultura dei nativi e delle loro «nuove dimensioni di approccio alla conoscenza» (p. 59). Ferri cerca di legare il discorso di Prensky alla proposta di Antonio M. Battro e Percival J. Denham i quali, per parte propria con una certa cautela, propongono la nozione di intelligenza digitale. Egli, infatti, sintetizzando il proprio pensiero, scrive: «La nostra opinione, in proposito, è piuttosto radicale: i nativi digitali esistono e la loro differenza specifica è l’intelligenza digitale» (p. 80).
Ferri in tal modo cerca esplicitamente di espandere il lavoro di Howard Gardner, che aveva lanciato l’idea di una pluralità di forme di intelligenza, come l’intelligenza logico-matematica, l’intelligenza linguistica, l’intelligenza spaziale, aggiungendone un’altra: quella digitale appunto. Ecco, nel suo nucleo, l’impianto teorico del libro. Esso costituisce, però, solo una parte del discorso di Ferri, che prosegue mostrando cosa ne deriva sul piano pratico.
A suo giudizio, gli insegnanti, immigrati digitali, dovrebbero aggiornarsi, diventare abilitati digitalmente, imparare nuovi ruoli come quello di e-tutor e e-mentor (p. 110). Il loro ruolo si trasformerà, scrive, da quello di «“signore dell’aula” che dispensa “pillole di conoscenza” accuratamente preparate in anni di esperienza, a progettista didattico, allenatore, coach o tutor di un team di giovani talenti» (p. 172). Gli ambienti scolastici si dovrebbero trasformare per consentire agli studenti di svolgere attività su Internet (con aule cablate, con la possibilità di collegamenti wireless ecc.).
Quanto agli editori, in maniera molto chiara Ferri scrive: «Le imprese editoriali analogiche, e cioè i content provider gutenberghiani e massmediali, dovranno occuparsi di ristrutturare la loro offerta di contenuti e il loro modello di business, secondo le nuove regole del capitalismo digitale» (pp. 131-132). Insomma, egli prefigura un cambiamento radicale circa il mondo della scuola a tutti i livelli.

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