Intervista a Paolo Ferri

Paolo Ferri insegna Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie didattiche presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, dove dirige il Lisp (Laboratorio informatico di Sperimentazione Pedagogica) e l’Osservatorio Nuovi Media NuMediaBios. Per Bruno Mondadori ha pubblicato La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione (2008); Nativi digitali (2011).

Provando a entrare nel merito, in che cosa consiste questa radicale differenza?
Io la colloco nelle nozioni relative all’apprendimento. La prima e radicale differenza è che noi siamo figli di Gutenberg e questi bambini e ragazzini sono figli di internet.
Noi, figli del libro, abbiamo studiato, ci siamo fatti una forma mentis costruita sulla parola alfabetica, accompagnata da immagini fisse. Ora, la parola alfabetica, come diceva McLuhan, porta con sé tutta una galassia di rappresentazioni correlate: l’autorità del testo, sacro o meno, implica anche un modello di comunicazione che storicamente è stato quello uno-molti. Che fosse il prete dal pulpito, il politico dal palco, il Papa dallo scranno, era quello il modello dominante, che si è trasferito anche nelle istituzioni educative. In generale, l’insegnante ha la sua cattedra e parla a tanti.
In che senso i nativi digitali hanno una testa completamente diversa? Intanto perché, per loro, la parola alfabetica è uno dei tanti codici, e sicuramente il più difficile da interpretare. Loro sono immersi in un mondo fatto di video, grafica, animazione, suono e anche parola. Ma la parola, come dimostrano gli studi di psicologia cognitiva, è il codice più difficile, il meno immediato, perché c’è la mediazione del significante. Cioè, il cavallo si chiamerà diversamente in tutte le lingue, ma se uno lo vede riconosce cos’è, mentre la mediazione del significante è più complessa. Noi siamo cresciuti nella cultura di Aristotele che diceva “zoon logon echon” e se l’uomo è un animale che ha la parola forse è la parola quella che ci distingue specificatamente. Loro vivono in un mondo in cui la parola è uno dei tanti modi di comunicare. È parola orale, attaccata al video, è parola cantata, è parola rappresentata dentro un videogioco, è anche testo scritto. Ma, ripeto: “anche”, non solo.
L’altra differenza fondamentale è che, vivendo immersi in questo mondo multicodicale, fanno davvero fatica a relazionarsi con chi si sta traghettando, con più o meno fatica, verso questo mondo, i cosiddetti migranti digitali, cioè con gli adulti. Ovviamente questa dicotomia non è proprio così secca, perché poi ci sono tante sfumature di grigio, non c’è solo il dato anagrafico, ci sono le passioni personali, ecc., però è un fatto che, da un certo momento in poi, le cose non sono più come prima.
Possiamo dire che i nativi digitali nascono quando nella società si diffondono gli schermi interattivi come strumento di comunicazione. Qui c’è proprio un punto di rottura perché questi schermi sono veramente interattivi. Cioè, l’unico modo per comunicare col televisore era cambiare canale. Quello era il tasso di interattività concesso. Qui invece si è veramente dentro lo schermo. Nel senso che, mentre il televisore lo accendi e ti compare subito il programma, se apri Google non succede niente, devi comunque fare un gesto attivo di ricerca. Ecco, questa idea che devi fare delle cose tu ormai entra nella testa dei bambini in un’età molto precoce. Con Susanna Mantovani stiamo concentrando gli studi nella fascia 0-6 anni; il contatto col cellulare o col tablet ormai avviene intorno all’anno, anno e mezzo e accompagna, nei fatti, tutta la vita dei bambini. È vero che, al momento, in Italia, i tablet hanno una penetrazione che si attesta intorno al 10%, ma già gli smartphone sono sul 56-57%; oltre il 90% delle famiglie con figli hanno il computer. Probabilmente sono i bambini che chiamano la tecnologia.
Quello che è certo è che loro si sono abituati a un modo del tutto nuovo di interagire con gli artefatti culturali, nel senso che noi, che fossimo in chiesa, alla sezione o davanti al libro, ascoltavamo e leggevamo. Loro si abituano a fare delle cose dentro gli schermi e questo fare delle cose dentro gli schermi, inevitabilmente, sta diventando un habitus, cioè un modo di operare che interessa tutti i contesti in cui si trovano. Siccome i contesti dei bambini sono la famiglia, la scuola e il gioco, ecco che questa modalità è arrivata anche dentro la scuola.
Io faccio sempre questo esempio: io ho incontrato i “problemi”, intesi come problemi di matematica, in seconda elementare.
Questi incontrano problemi, che sono di altra natura, casomai il videogioco di Super Mario, ben prima. Di nuovo, in Super Mario, se non fai delle cose dentro lo schermo non succede niente, non passi al livello successivo. E, attenzione, la soluzione dei problemi, per loro, non avviene per via logico-deduttiva”, ma è qualcosa di molto simile a quello che, cento anni fa, si sono inventati la Montessori e Dewey, cioè un fare attivo che ti porta a sperimentare varie soluzioni fino a individuare quella più efficace.

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